Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore Claudio Pallottini e dell’editore Carocci, il primo capitolo del libro “GIGI PROIETTI – Insegnamenti e chiacchiere sul teatro, sull’attore e su altre amenità”, il primo docu-libro che racconta, con le stesse parole di Proietti, la sua visione del teatro, della recitazione, dell’arte scenica. Un libro leggero, divertente e divertito, come il suo protagonista, che, con l’ironia, l’aneddoto comico e la risata, ha saputo insegnare a decine e decine di futuri attori e attrici come dire una battuta, come far arrivare al pubblico un pensiero, come rendere chiaro un sentimento o efficace una pausa e soprattutto l’amore per la conoscenza. L’autore è Claudio Pallottini, attore, sceneggiatore, drammaturgo e scrittore, diplomato al Laboratorio di Gigi Proietti, che ha recitato e scritto per lui sketch, sceneggiature e commedie. Il libro sarà presentato a Salerno, agli inizi di novembre, in occasione del quarto anniversario della morte del grande attore, nel corso di una Giornata Proietti, che sarà promossa da RQ e dall’Università di Salerno.
Introitus: Come un diario personale
Notte tra l’1 e il 2 novembre 2020
Qualche minuto prima di mezzanotte mi arriva un sms del mio amico fraterno Marco Simeoli.
«Sei sveglio?» mi scrive.
«Sì. – rispondo – Perché?»
«Posso chiamarti?»
Lo chiamo io: deve essere una cosa urgente.
«… Hai letto?» è la prima cosa che mi chiede.
«No. … Cosa?»
«Di Gigi… Dicono che è ricoverato in condizioni gravi».
«Dove?»
«In una clinica vicino la Nomentana… Scrivono che è da parecchi giorni. Tu sapevi qualcosa?»
«… Veramente, no».
Un lungo silenzio.
«… Ho paura, Cla’. − mi dice commosso − Non ho una buona sensazione».
Attacco e mi collego immediatamente ad Internet; ovunque, a partire dal sito de «Il Messaggero», è un rimbalzare della medesima notizia: «Condizioni gravi. Serie. Gravissime».
Vorrei chiamare Carlotta o Susanna, le figlie di Gigi, per sapere qualcosa da loro, ma evito: tanto, come insegna il detto popolare, le brutte notizie trovano da sole la maniera di giungere. E poi, magari, è solo una fake, l’ennesima falsa notizia in giro sul web, che domattina si scioglierà come neve al sole.
Al mattino seguente, però, mi basta ascoltare il primo radiogiornale per apprendere che non era affatto una fake, che era tutto drammaticamente vero, e che Gigi Proietti non c’è più: «Il cuore del grande attore romano − dice la speaker − ha cessato di battere».
Resto senza fiato e senza parole, e, per colpa del Covid, sono anche senza odori, ma il sale delle lacrime non è un odore e lo sento eccome.
Mi siedo sul bordo del letto e mi metto a fissare sulla parete una foto di scena di Gigi e me nello sketch de La signora delle camelie. «Una delle dieci scene più comiche del cinema italiano», come disse Gianluigi Rondi dopo la proiezione per la stampa, senza specificare quali fossero le altre nove. E mi pare incredibile.
La foto me la fece Tommaso Le Pera al Sistina e io ne vado molto fiero, sia della foto sia dello sketch.
Sulla libreria ne ho un’altra, dove c’è solo Gigi inginocchiato mentre recita Kean; è autografata: «A Claudio, Gigi Proietti».
«Ma sei tu, o un amico tuo?» mi chiese prima di firmarla.
«Un amico, Gi’, che si chiama come me». Mentii per paura che non me la autografasse.
Poi il pensiero torna al presente e mi pare, oltre che incredibile, impossibile: «L’ho visto che era… che era…?» Mi blocco: ho una gran confusione in testa; e, nonostante gli sforzi, non riesco a ricostruire l’ultima volta che ci siamo visti.
Mi viene però alla mente la prima volta che mi telefonò a casa. Non c’erano ancora i telefonini e io abitavo coi miei.
«Posso parlare con Claudio? − disse con la sua voce baritonale − Sono Gigi Proietti». E a mia madre vennero meno fiato, gambe e voce.
Sorrido a quel ricordo e, come premio, mi torna alla memoria anche l’ultima volta che ci siamo visti: era venti giorni fa, era il 10 ottobre, era di pomeriggio a casa sua. L’ultima volta nella quale parlammo, più lui che io, di teatro e di attori, di recitazione e di personaggi, di arte e di mestiere, di alto e di basso. L’ultima volta che mi insegnò qualcosa.
I
Un mestiere che non finisce mai
10 ottobre 2020
Mi apre Sagitta, la moglie: «Gigi è di là − mi fa − sta studiando».
«Ciao maestro» dico affacciandomi nella cucina.
«Ciao, core. – mi saluta sollevando gli occhi dal bugiardino di un medicinale – Come stai?»
«Bene. Tu?»
«Come mi vedi, – fa – così così?!» Aggiunge agitando la mano su e giù e si rimette a leggere il foglietto.
«Vuoi un caffè?» mi chiede Sagitta.
«No, l’ho preso da poco, e se ne prendo un altro stanotte faccio la cotoletta».
«Tu, Gigi, un caffè?»
«Magari!»
«Dài, ve lo porto fuori».
Gigi la fissa con un’espressione a metà strada tra lo stupito e il reticente: «Ma perché?» chiede.
«… Perché fuori c’è il sole» ribatte Sagitta.
Il maestro alza gli occhi e sbuffa, e con la stessa faccia di Toto quando non riesce a dire «diminutivo»… «Ma guarda tu che parole me vado a sceglie dopo la saùna!»… abbandona la cucina e ciabatta poco convinto fino alla porta d’ingresso rimasta aperta dal mio arrivo. Scruta il cielo come cercando una scusa per non andare fuori, una nuvola minacciosa, una pozzanghera gigante, le macchine parcheggiate male, ma non c’è niente di tutto ciò. Mi fissa come a chiedermi “Ma siamo sicuri?…” Io annuisco e lui con un sospiro rassegnato, varca la soglia.
Ci dirigiamo verso un poggiolo del giardino dove ci sono alcune sedie e poltrone da esterno. Sagitta precede, lui dietro, io accanto leggermente arretrato. Arrivati all’attacco di una brevissima erta sterrata si ferma: «Pure la salita!?», esclama comicamente contrariato.
Pigrizia
NANCY BRILLI: «Era pigro da morire, molto piacevole e divertente, pieno di talento, ma pigro». Esordisce così Nancy.
«Forse indolente?» provo a correggerla, non condividendo affatto l’affermazione.
«No, no, proprio pigro. Almeno questa è stata la mia impressione tutte le volte che ci ho lavorato. Pigro, pigro, pigro. Di quelli che sembrano dire: “È bello fa’ le cose, ma se se fanno da sole è pure mejo”. Però ripeto, molto piacevole e divertente».
«Quante volte avete lavorato insieme?»
«Quattro volte: Italian Restaurant (1994), con la regia di Giorgio Capitani; La Mandrakata (2002), La vita è una cosa meravigliosa (2010) e Sapore di te (2014), con la regia di Carlo Vanzina».
«In teatro?»
«No, purtroppo no».
«Perché purtroppo?»
«Perché avrei potuto imparare tanto. Penso che il meglio, a livello di insegnamenti, Gigi lo abbia espresso sul palcoscenico».
«Sul set no?»
«Sul set era molto rispettoso dei ruoli: non l’ho mai visto sovrapporsi al regista dando indicazioni. Qualche volta proponeva modifiche alle sue battute, ma mai a quelle degli altri; e mai quelle cose tipo: “Me la fai così?…”.
Umanamente era uno spasso, gli piaceva animare la troupe, e si lasciava andare. Poi con lui io ridevo solo al vederlo. Quando andammo in Sudafrica per La vita è una cosa meravigliosa ridemmo già in aereo, dove si perse il passaporto, gli occhiali e un calzino».
«Un calzino?»
«Sì, l’altro ce l’aveva addosso. Lo cercammo dappertutto, sotto i sedili, lungo il corridoio, al bagno… Con le hostess, gli altri passeggeri… Niente. Alla fine lo ritrovammo dentro la fodera del poggiatesta del posto accanto al suo: evidentemente Gigi si era addormentato e il calzino gli si era sfilato. Comunque un grande spasso».
.
… «Gi’, so’ tre passetti» dico.
«Pe’ te!» mi risponde scherzando.
«Pe’ tutti» ribatto.
«Sì, sì… – mi replica sogghignando –, … ve ne accorgerete!»
«Di che?»
«Ve ne accorgerete. Punto!», e deciso affronta la salitella arrivando al poggiolo.
«Va bene, quine?», chiede canzonatorio a Sagitta.
«Dove vuoi tu, amore».
Gigi sorride e si siede su una larga poltrona di legno.
«L’avevi vista?», dice indicandomi una piccola piscina ultimata da poco.
«Solo in foto, bella!»
«… È poco più di una pozzanghera, ma l’acqua è sempre calda. – aggiunge soddisfatto – Sempre a 30 gradi, estate e inverno».
«Fantastico!»
Mi lancia un’occhiata come a dire «non te frega niente eh?!», ma io lo rassicuro: «… Un giorno vengo e la provo».
«Anche oggi, se vuoi – interviene Sagitta – abbiamo dei costumi per gli ospiti, Claudione». Claudione sono io.
«Un’altra volta, grazie», rispondo educato e torno da Gigi.
«Allora, maestro? Che si dice?»
«Eccoci qua». Fa lui spostando lo sguardo dalla piscina al giardino, dal giardino alla casa e da quella di nuovo alla piscina. «Eccoci qua!» ripete nervoso.
«Ti serve qualcosa, Gi’?» domando notando la sua insofferenza.
«Sì – mi dice con un tempo comico perfetto – tornammene dentro. Qui c’è troppa aria!» E senza attendere oltre si alza e abbandona il poggiolo.
Il mestiere più bello del mondo
CARLOTTA PROIETTI: «Percepire il teatro come un luogo divertente e il lavoro dell’attore come il più bello del mondo, sono stati i primi insegnamenti di mio padre e anche di mia madre. Poi ci sono stati i consigli sul campo».
«Ti ha insegnato lui a cantare e recitare?»
«Riguardo al canto, ho imparato probabilmente da piccola ascoltandolo in casa con la chitarra. Nel tentativo più tardi di fare la cantante di mestiere, però − diciamo che sono un tipo a cui piace fare da sola, senza chiedere niente − andai a studiare da una cantante lirica bravissima a Monteverde. Papà lo seppe dopo un anno».
«Sulla recitazione?»
«Lì mi ha insegnato di più. Ma sempre con tatto: senza mai dirmi fai questo non fare quest’altro. Sempre lasciandomi molto libera e dandomi solo dei suggerimenti. Quando incisi il mio primo disco, ad esempio, mi suggerì, visto che avevo un bel timbro, di non farmi effettare la voce, di chiedere al fonico di renderla il più naturale possibile, di valorizzarla evitando suoni strani. Me lo suggerì così, senza volersi imporre».
«E tu l’hai seguito?»
Ride: «No, mi piaceva sperimentare e probabilmente avevo bisogno di fare i miei errori. Un suggerimento bellissimo sulla recitazione però, e credo che è stato anche il suo insegnamento più importante, fu quando mi disse: “Tu potresti recitare”. Non so se è un insegnamento vero e proprio, però un po’ sì: è un riconoscimento che ti viene dato, una fiducia… No?»
Libri e locandine
A passo assai più rapido rientriamo in casa e ci accomodiamo nel suo studio, Gigi sulla sua poltrona di pelle che guarda la scrivania, io in una poltroncina di stoffa quasi di fronte.
L’ambiente è molto accogliente: ci sono fogli per scrivere, quaderni, il computer, lo stereo, la chitarra e tanti libri alle pareti. Qualcuno anche doppio. Regali, probabilmente.
«Li hai letti tutti?» domando cercando di rompere un disagio palpabile.
«Ni».
«Ni?»
«Gli ho dato una snasata» e apre una lettera contabile che giace sulla scrivania.
L’espressione mi colpisce: pensavo che i libri si potessero leggere, leggiucchiare, sfogliare, divorare, mangiare, macerare, bruciare… «Dare una snasata» è la prima volta che la sento, ma non è male, anzi, visto il soggetto, ce lo vedo proprio mentre apre il libro e ci infila dentro il suo naso non proprio “ino”.
E poi, l’uomo che mi sta seduto innanzi, è stato Cyrano di Bergerac e, come si sa, i ruoli che un attore interpreta rimangono sempre un po’ addosso, se non nelle condotte, almeno nella maniera di percepire e conoscere il mondo.
Cerco alle pareti la locandina di quello spettacolo che non ho mai visto dal vivo; con mia meraviglia non c’è. Come non ci sono le altre dei suoi spettacoli, né i manifesti dei film, né quelli delle tante fiction.
Gli domando il motivo.
«Stanno in corridoio: le ha sistemate lì Sagitta». E a me viene in mente una barzelletta che ho sentito raccontare una sera a Milano proprio da lui.
Durante una crociera per sposati, succede un terribile incidente e muoiono 5.000 coppie. Allora san Pietro per fare prima li sistema in due file, una con tutti i mariti e una con tutte le mogli. Poi va dai mariti e gli dice: «Adesso, per favore, fate due file: una con quelli che hanno fatto sempre quello che diceva la moglie; un’altra, invece, con quelli che hanno fatto sempre di testa loro». E tutti vanno nella prima fila, tranne uno. Allora Pietro gli va vicino, incuriosito, e gli chiede: «Scusi, ma lei è sicuro? È proprio sicuro di stare nella fila giusta?»
E quello: «E che ne so! A me, me l’ha detto mi moje!»
«Vai, vai. – mi dice – Ci stanno tutte».
Mi alzo e vado in corridoio.
Le locandine sono incorniciate una accanto all’altra, e per ognuna c’è il suo corrispondente biglietto d’oro. Testimone incontrovertibile di qualcosa come centomila spettatori. Centomila spettatori che hanno sfidato traffico, intemperie e parcheggio per venire ad applaudirlo e a urlargli: «Bis!», anzi «Bisse! Bi-i-esse-esse-e. … Er bisse».
E come per incanto, in un attimo, ce l’ho davanti agli occhi mentre interpreta uno dei suoi cavalli di battaglia, come da anni definisce i suoi pezzi più noti e più amati dal pubblico, quello del “primattore” che finge di non amare l’applauso di sortita.
Lo vedo uscire un momento in quinta, sistemarsi il colletto e subito rientrare nello spazio scenico.
«Gertrude? Gertrude!» – chiama due volte, e poi fa una pausa godendosi l’applauso del pubblico. Ma per poco, perché con le mani lo smorza, come infastidito da quell’omaggio che rompe la magia della sua interpretazione.
Quindi si ferma ed uscendo dal personaggio e parlando direttamente col suo pubblico chiede di aiutarlo: «Ora io rifaccio la stessa entrata, ma voi, però, non applaudite, vediamo se l’attore veramente non gradiva l’applauso».
E ripete l’ingresso: «Gertrude? Gertrude…!»
Nessuno applaude.
Si blocca, esibisce tutti gli stati d’animo dell’attore spiazzato dall’assenza dell’applauso: sorpresa, stupore, incredulità, fastidio, risentimento. Poi torna indietro, ripete la battuta: «Gertrude! Gertrude?!» – niente! – Esita incerto, spaurito, timido e intanto cerca uno stratagemma per far scattare l’applauso. Si gratta la testa, si guarda intorno, sorride al pubblico, accenna anche un piccolo saluto… – ancora niente! – Mugugna tra sé, sbuffa, scuote la testa, bofonchia: «Ammazza che carogne!» Infine, sull’orlo della disperazione, il colpo di genio: s’inchina di scatto fino a terra come in un ringraziamento finale. Il pubblico ci casca e applaude e lui finge di legarsi i lacci delle scarpe.
I “tutto esaurito” fanno notizia
MARIO BUSSOLINO: «Ho conosciuto Gigi di fama ad una cena dove Ferruccio Soleri − il superbo Arlecchino di Giorgio Strehler − ci parlò di questo ragazzo bravissimo che aveva intrattenuto con la chitarra in casa di amici. Di persona invece lo conobbi ad una festa a casa di Tinto Brass, durante la quale c’era stato un dibattito sugli attori che per alcuni dovevano essere necessariamente dei rivoluzionari. Gigi mi chiese la mia opinione e facemmo conoscenza.
Lo andai in seguito a vedere ne Il dio Kurt (1969) di Moravia dove ammirai la sua capacità di parlare, la sua facilità e velocità, e notai anche la particolarità di Proietti nel “guardare il personaggio”. Vado a spiegare: a differenza di tanti attori che cercano l’immedesimazione totale, Gigi sembrava mostrarlo, indicarlo agli spettatori. E per me, giovane attore come lui, fu una rivelazione. Venivo dal metodo Costa.
E poi un’altra volta ancora ci incontrammo, dopo la prima di Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, all’uscita del cinema Adriano. C’era pure Nanni Loy e parlammo a lungo di quello che avevamo visto, e di cui nessuno di noi tre era soddisfatto. Eravamo giovani e incontentabili!» ridacchia.
«Tempo dopo un amico mi chiede di presentarglielo, allora io lo chiamo e Gigi, senza nemmeno farmi dire il motivo della chiamata, mi dice che stava pensando proprio a me e chiede di vederci subito da lui a via dei Santi Cosma e Damiano.
Andai immediatamente e lui in quell’occasione mi dice che “vuole mettere su compagnia, fare ditta” − ecco il primo insegnamento − e che siccome aveva saputo che io mi ero occupato già di Gabriele Lavia, voleva che lo aiutassi.
Abbiamo allora messo su dal notaio la società 3 13 33, e fatte tutte quelle pratiche burocratiche che servono per partire e per essere credibili, Gigi era intelligente e aveva capito, come lo aveva già capito Lavia, che uno dei segreti del teatro non è quello di aspettare la scrittura, ma di proporsi con una propria struttura, in modo che se guadagni due soldi, non te li mangia il produttore, te li prendi te. Capisci?!»
«Tu accettasti subito?»
«In realtà ci pensai un po’ su, facevo ancora l’attore, avevo delle ambizioni… ma accettai abbastanza velocemente, e convintamente mi misi subito a lavoro: si trattava di cavalcare un successo. Gigi aveva già fatto A me gli occhi, please (1976) e come si dice “il ferro va battuto caldo”. Mettemmo allora su La commedia di Gaetanaccio (1978) di Gigi Magni al Brancaccio e fu un grandissimo successo, specialmente di pubblico».
«D’incasso, no?»
«Anche, ma meno: avevamo un prezzo del biglietto modesto: ma meglio così. Come dicevamo spesso con Gigi: meglio guadagnare meno e avere il teatro pieno, piuttosto che metà sala. I “tutto esaurito” fanno notizia e la gente non vuole perderli».
Il talento
… Rientro dentro lo studio.
«Allora, che m’hai portato?» mi domanda.
Tiro fuori una cartellina con la sceneggiatura fresca di stampa di Biondo vedova. La scrissi insieme a Piero De Bernardi nel 2005. Gigi, che fu il primo a leggerla, l’ha sempre amata e da sempre ha accarezzato l’idea di farne lui la regia. Forse è la volta buona…
«È la versione che cercavi, Gigi, quella senza la limonaia», dico.
«… Vedi che c’era!», quasi mi rimprovera.
«… E queste sono le foto della location. Te le manda la produzione». Le osserva una per una entusiasta.
Anche Sagitta affacciandosi nello studio le approva: «Sono bellissime, Gigi», dice.
«Sì. sì, la villa è questa. – annuisce convinto – È perfetta… Il problema… – aggiunge dopo una pausa – sono io».
Lo fisso. «Ci siamo – penso tra me – è il momento dei dubbi». «Cos’è che non ti convince, maestro?»
Mi risponde battendosi due dita sul petto: «Io. … Non so se me la sento».
Ruota gli occhi intorno a sé, sospira, si passa la mano sulla pancia e sotto le costole, accenna a un malessere diffuso. È un po’ di tempo che non sta proprio in forma, non è un segreto, ma a me, a parte quella voce un poco debole, non sembra così acciaccato.
«… Un film è complesso, core, e questo è un film molto complesso. Vanno studiate le scene, i movimenti macchina. E prima di arrivare a girare bisogna rivedere la sceneggiatura».
«Sono qui apposta, Gi’».
«Mmmmhhh… − mugugna − Poi bisogna scegliere gli attori, fare i provini, le location, i costumi…».
«… La produzione mi ha detto che ti metterà accanto un aiuto regia molto bravo, Salvatore Chiosi, lo conosci, ha fatto la seconda unità con Vittorio Sindoni, e molto lavoro te lo porterà avanti lui».
«Mmmhh», mugugna di nuovo.
«… Inoltre – aggiungo – la produzione starà ai tuoi tempi. Se vuoi, anche fra un anno, in autunno prossimo».
Fa cenno di no con la testa: «È un film colorato e pieno di luce… – dice – Va fatto in primavera».
«Non credo che sarà un problema allora girarlo fra un anno e mezzo».
Sembra rassicurato. Riprende le foto e le riguarda. Rilegge qualche dialogo della sceneggiatura… «È proprio bella! Fa ridere!» ribadisce ammirato.
«Per gli attori?» chiedo, svicolando dai complimenti.
«La protagonista deve essere straniera, in Italia non c’è. Ci vuole un’attrice internazionale, giovane e bravissima… E ovviamente bionda».
«Un nome ce l’hai già?»
«… Non accetterà mai, ma ci vorrebbe Scarlett Johansson».
«Magari! E gli altri ruoli?»
«Gli altri sono più facili, ma devono comunque essere attori di talento che sappiano muoversi davanti alla cinepresa. Ci sono molte scene d’insieme complesse… È una famiglia che lotta contro un’intrusa: mi piacerebbe riprenderli come fossero un piccolo branco, hai presente?, che si muovono insieme, che si tengono d’occhio a vicenda. Ci vogliono attori di talento», ripete.
GIANFRANCO JANNUZZO: «Quando feci il provino, e credo che chiunque abbia fatto un provino con lui abbia provato la stessa cosa, io ebbi la netta percezione di un incontro con qualcuno che al di là delle capacità − cantare, ballare, recitare − ricercasse il talento. Il talento che poi lui e gli insegnanti del suo laboratorio avrebbero fatto venire fuori e fiorire.
«… Meglio ancora se caratteristi con delle belle facce comiche. – aggiunge – Ci stanno? Che dici, ci stanno ancora i bravi caratteristi comici?»
«Beh, direi proprio di sì».
«Mmmmhhh… − mugugna per la terza e ultima volta – Non credere. Io li vedo nelle fiction e nei film: vogliono essere tutti primi attori, e il primattore non fa ridere, è troppo preoccupato di risultare bello».
«Gassman però faceva ridere».
«Perché aveva imparato a non prendersi sul serio. Vittorio l’ha inventato Monicelli, è stato lui a convincerlo che poteva far ridere. La balbuzie ne I soliti ignoti (1958) gliel’ha suggerita lui. È così che ha scoperto la sua vis comica nel cinema».
Si lascia andare a un ricordo.
Vittorio Gassman
«Una volta stavamo in un centro termale in Toscana. Pieno di saune, piscine, sale massaggi… Un pomeriggio scendo e lo trovo in una vasca ovale, dove l’acqua arrivava fino al petto, che camminava, tutto impettito. Allora entro in acqua pure io e mi metto a camminare con lui. E lui, come mi vede accanto, comincia ad accelerare – ci teneva ad essere primo – Dico: “Vitto’, guarda che se vai troppo avanti poi finisci de dietro!”
Non è finita: a bordo vasca c’era un istruttore che pensando volessimo fare ginnastica ci dice che ad ogni suo fischio dovevamo saltare fuori dall’acqua più che potevamo. Io, dopo due salti ho detto basta; Vittorio, invece, che era atletico, ad ogni fischio… zum, saltava fuori. Allora l’istruttore tutto contento comincia a fischiare sempre più frequentemente, sempre più rapido. Fii fii fii e lui sempre che saltava.
Dopo un giro di piscina era paonazzo. “Mò schioppa”, pensai.
Invece, fa un altro giro, e quando arriva dove stava l’istruttore, Vittorio da dentro l’acqua spicca un salto di un metro e mezzo e gli urla in faccia: “Li mortacci tuaaaaaa!”
Era simpatico, Vittorio, spiritoso», sorride.
«Un altro ricordo?»
«Sul set di Altman (A wedding, 1978) avevamo una scena insieme, dove però potevamo recitare in italiano. Allora siccome ad Altman piaceva l’improvvisazione e noi facevamo due fratelli che discutevano, cominciammo a prenderci a parolacce. Altman impazzì, ci fece andare avanti cinque o sei minuti. Credo che da qualche parte ci sia ancora la colonna originale con noi che ce le diciamo di tutti i colori. − ride − Poi, vabbè, di ricordi di Vittorio è piena la casa. Stiamo qui fino a mezzanotte».
«Perché no?!», lo provoco.
Sorride, e la voce che prima, appena arrivato, mi era sembrata debole e un po’ sfiatata, adesso ha il suo colore naturale: «… Sempre sul set di Altman, una sera Vittorio mi porta in un locale per incontrare un grande regista americano che cercava un attore per un film. Per me poteva essere una buona occasione. Entriamo nel locale e mentre aspettiamo iniziamo a bere. Passano una, due, tre ore… ma questo non arriva.
“Ma sei sicuro, Vitto’, non è che ci dà buca?” chiedo.
“Me l’ha assicurato” mi fa.
“Vabbè!”
Finalmente, alle tre e mezza di mattina, arriva questo regista.
Vittorio ci presenta e poi si allontana. Restiamo io e lui uno di fronte all’altro. Iniziamo a parlare, ma quello parlava lentissimo e con un filo di voce. Tanto che io mi dovevo avvicinare sempre di più. Beh, mi raccontò Vittorio, che a un certo punto m’ha visto crollare addosso al regista e russargli sulla giacca. Ovviamente la parte non me l’ha data». Ride.
«Ma te l’ho mai raccontato il mio soggetto per Altman?»
«… mi sa di no».
«È la storia di un uomo che fa una festa a casa sua, perché sa che quella notte morirà. Non ha nessuna malattia, ma lui sa che quella notte è l’ultima perché gliel’ha detto un veggente vent’anni prima. Insieme ad altre cose sulla sua vita che si sono tutte avverate.
Durante la festa, l’uomo dice tutto ciò che pensa ai suoi familiari e ai suoi amici, sistema i suoi affari, i suoi lasciti e poi aspetta la morte, che però non arriva. E lui resta così. Ti piace?»
«Bello, anche se mi sembra che la parte interessante arrivi dopo».
Mi guarda e fa una smorfia: «È la stessa cosa che mi disse Altman! – dice – … Comunque non s’è fatto – e senza alcun tono di rimpianto aggiunge – come tante altre cose».