L’8 marzo non sia un atterraggio nel campo di mimose

Al di là della storia dei riti festaioli e commemorativi, nonostante i bonus e le attenzioni del Governo verso l’istituzione famiglia, l’Italia rimane il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile rispetto al Nord Europa. E c'è tanta voglia di futuro

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“Chi dice donna dice malanno” è il proverbio più noto, tratto da un documento al veleno inviato al Papa Innocenzo X per la stima scadente dei romani nei confronti di sua cognata Donna Olimpia Maidalchini, detta anche “Pimpaccia”. Esistono molteplici detti popolari che inquadrano le donne con accezioni negative resistenti all’usura del tempo e ai cambiamenti socio-culturale, tanto da indurre a pensare che l’8 marzo andrebbe festeggiato ogni singolo giorno dell’anno! Sulle origini della “Giornata internazionale dei diritti delle donne” esistono molte leggende. Nella realtà degli eventi storici, l’idea nacque nel 1909 negli Stati Uniti per iniziativa del Partito Socialista americano e l’anno seguente la proposta venne accolta a Copenaghen, durante la Conferenza internazionale delle donne socialiste. L’8 marzo del 1914 in Germania si celebrava il Frauentag per il diritto al voto delle donne, che in Italia divenne realtà nel 1946; sempre l’8 marzo del 1921 si definì a Mosca la “Giornata internazionale dell’operaia”.

La mimosa divenne il fiore simbolo della donna, in quanto umile, profumato, dal colore solare e a fioritura stagionale. Ma bisogna aspettare gli anni ’70 per approdare alla data comune in ambito internazionale, a scegliere fu l’assemblea generale delle Nazioni Unite. Il 19 maggio 1975 con larghissima maggioranza, fatta eccezione l’astensione del Movimento Sociale, il Parlamento italiano approvò la Legge 151 sulla riforma del nuovo diritto di famiglia: riforma decisiva per lo sviluppo sociale e giuridico del Paese che riconobbe alla donna una completa parità in ambito familiare e garantì la tutela legale dei figli definiti illegittimi. Nel 1976 Tina Anselmi – primo ministro donna della Repubblica italiana – prese a lottare per i diritti di genere e dei lavoratori. Dopo anni di lotte, conquiste e celebrazioni, c’è da chiedersi: “l’8 marzo ha ancora un senso?” Al di là della memoria storica e della voglia di continuare a festeggiare con pranzi, cene, gadget dedicati e i bouquet di mimose infiocchettati, l’attenzione cade sui gap ancora in essere, sottolineando i punti dolenti in particolare nel mondo del lavoro: leadership e promozioni (le statistiche rivelano che solo il 28% delle posizioni apicali è occupato da donne), l’assenza di un corrispettivo tra competenze e opportunità professionali (nonostante le donne siano sempre più competenti e qualificate, scarsi riconoscimenti e visibilità registrano un divario del 10% rispetto ai colleghi maschi), non ultime le micro aggressioni palesi e subdole sul posto di lavoro legate a stereotipi e pregiudizi difficili da sradicare. Il walfare, in particolare in alcune Regioni italiane, non aiuta le lavoratrici madri, costrette a scegliere tra occupazione domestica e quella professionale. Di fatto, nonostante i bonus e le attenzioni del Governo verso l’istituzione famiglia, l’Italia rimane il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile rispetto al Nord Europa. E allora l’8 marzo non va considerato come l’atterraggio festaiolo in un campo di mimose, bensì il trampolino di lancio da cui far partire il futuro.

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