“L’inconscio è il discorso dell’Altro”. Così Lacan, nel suo inaugurale percorso di riformulazione strutturalista dell’invenzione freudiana. Di lì a qualche decennio, facendo eco al freudiano “L’avvenire della psicanalisi” , lo stesso Lacan, nel corso di una intervista ebbe a dichiarare: “L’avvenire della psicanalisi dipende da quello che avverrà di questo reale, cioè se i gadget, per esempio, vinceranno veramente la partita, se noi stessi giungeremo a essere veramente animati dai gadget”.
È un errore considerare il soggetto dell’inconscio come un dato di natura, o peggio come un’essenza sovrastorica immune dalle trasformazioni sociali. È un errore anche pensare che la sua esistenza sia garantita in quanto espressione ontologica della realtà umana. Di conseguenza è un errore, a mio giudizio, non contemplare la possibilità disastrosa che il soggetto dell’inconscio possa declinare, eclissarsi, perfino estinguersi.
La valenza etica dell’inconscio
come sottolineata da Lacan
In tal senso Lacan ha sempre insistito sulla necessità di evitare di attribuire all’inconscio uno statuto ontologico, mostrandone invece la valenza eminentemente etica, o altrimenti “pre-ontologica”, quindi afferente al campo del preriflessivo. Tratteggiarne alcuni aspetti essenziali credo che sia, in generale, utile sul piano della riflessione e, nello specifico, rende più perspicua e apprezzabile la pregevole chiosa che Salvatore Marrazzo ha voluto dedicare al testo dello psichiatra Ercolani, la cui pubblicazione è operazione che, pur non essendo del tutto nuova né particolarmente originale, ha il pregio di rinnovare l’essenza pharmaceutica- pharmakon– della scrittura. Soprattutto perché rinnova una filiazione sorta a cavallo tra Otto/Novecento allorché agli psichiatri venivano richieste doti di scrittura attraverso cui la ragione diagnostica poteva descrivere, alla maniera di un Balzac, la clinica e le sue vicende.
Quasi tutto, di tutto ciò, è andato perduto nel momento in cui un funzionalismo riduzionista ha isterilito la stessa capacità e originalità diagnostica. Inaugurata dalle memorie di agostiniana ascendenza, l’inclinazione introspettiva ha caratterizzato in modo indelebile il riferimento alla soggettività umana, fino a costituire il carattere specifico della modernità occidentale.
Prevale la clinica
dello strapotere dell’Es
Se il grande passo di Freud è stato quello di mostrare che il soggetto dell’inconscio, questa sorta di prolungamento ignoto/non conosciuto/ del soggetto umano, era l’artefice di tutte quelle manifestazioni della realtà umana che sfuggivano al dominio intenzionale della coscienza, l’attualità della clinica ci confronta sempre più frequentemente con forme della sofferenza che sembrano aver interrotto ogni contatto con l’inconscio, tale da configurare due nuovi grandi capitoli della clinica psicanalitica: il capitolo della “clinica delle identificazioni solide” e il capitolo della ” clinica dello strapotere dell’Es”.
La dissoluzione delle strutture simboliche che hanno costituito la trama esistenziale e socio-politica dell’Occidente, costituisce lo sfondo delle profonde trasformazioni che hanno investito la psicopatologia il cui riflesso sociale mostra una pervasività mai registrata prima, fino a configurare la forma-soggetto quale passaggio dal post-moderno all’ipermoderno. Peculiare di tale passaggio è quel mathema che Lacan sviluppò per caratterizzare tale fase: “il discorso del capitalista”, i cui caratteri essenziali sono l’esaurimento della funzione orientativa e strutturante dei grandi ideali moderni, la depoliticizzazione, la demitizzazione, l’affermazione incontrastata del potere globalizzante del mercato, l’iperattività dell’individualismo edonistico, la depoliticizzazione e l’accelerazione maniacale del tempo. Tale tempo ipermoderno realizza la desostanzializzazione del soggetto e il suo affrancamento dalla pesantezza e dalla rigidità degli ideali della tradizione, esponendo nel contempo il soggetto stesso a un vuoto insensato, a un’apatia frivola” che paralizza la vita emotiva. Tale tempo odierno, ivi compreso “il tempo della scrittura”, non sembra avere più niente di tragico, che non sia più il tempo di Antigone; tuttavia non è “l’homo felix” il protagonista di questo tempo , quanto piuttosto l’uomo del godimento di sadiana memoria, trascinato in una sorta di deriva autistica che lo “separa dall’Altro”. È questa una tesi metapsicologica dell’ultimo Freud: la potenza del “Todestrieb” è una potenza che rompe gli argini, scioglie il legame del soggetto con l’Altro. A questa tesi si può aggiungerne un’altra: che la clinica psicoanalitica contemporanea è sempre meno una clinica del Desiderio e sempre più una clinica della pulsione di morte, una clinica antagonista al discorso amoroso, come una clinica dell’antiamore.
Dalla dissoluzione degli ideali
alla chiusura autistica in sé stessi
Alla tesi di Bauman, divenuta con successo una chiave di lettura della nostra epoca considerata come l’epoca dei “legami liquidi”, va fatta un’integrazione: agli effetti della dissoluzione della funzione orientativa dell’Ideale vanno aggiunte le “identificazioni solide” come espressione di quella tendenza alla chiusura autistica, alla pietrificazione, alla solidificazione narcisistica come risposta estrema alla liquefazione generalizzata dei legami sociali. Il riferimento allo “strapotere dell’Es” definisce così il campo di oscillazione della nuova clinica. Se lo strapotere dell’Es trascina il soggetto verso la devastazione pulsionale, le identificazioni solide gli offrono l’illusione di una consistenza immaginaria.
La prima è una “clinica dell’Es senza inconscio”, dove domina la sregolatezza pulsionale e la spinta all’evacuazione delle tensioni interne, del passaggio all’atto; la seconda è una “clinica dell’Io senza inconscio”, dell’immedesimazione alienante e conformistica ai sembianti dell’Altro, una clinica dell’armatura narcisistica. Ciò che accomuna queste declinazioni è la comune cancellazione del soggetto dell’inconscio, ma soprattutto esse indicano che tali forme del sintomo devono essere reperite nella clinica delle psicosi, del narcisismo e della perversione, nelle quali al centro non c’è l’istanza inconscia del Desiderio ma la sua negazione. Come dobbiamo intendere allora questa tendenza all’estinzione del soggetto dell’inconscio, alla sua liquidazione sociale cui pure allude, in una certa misura, il testo di Ercolani?…
La scommessa della psicanalisi oggi, e per estensione, l’impatto sul campo psichiatrico, non è più di “portare la peste” nella “Civiltà borghese” sconvolgendo il suo moralismo, come già fu con la rivoluzione basagliana e la sua messa in discussione di un apparato teorico-pratico di stampo vetero positivista: il secolo della psicanalisi ha ampiamente metabolizzato quel virus con l’effetto, imprevisto dal suo fondatore, della sua parziale neutralizzazione, esito che si è raddoppiato con il venir meno dello stesso modello basagliano e del suo “addomesticamento” da parte di ideologie di ritorno attraverso la devastante e acritica diffusione di psicofarmaci e di terapie “cognitivo-comportamentali” che pretendono di offrire soluzioni terapeutiche più efficaci e in tempi brevi. Una sorta di destituzione, con al centro l’accusa di intellettualismo e di impotenza clinica, che mirava alla critica dei suoi modelli epistemologici e, infine, giudicata,nella migliore delle ipotesi, un capitolo concluso della storia delle idee del Novecento, ridotta insomma a una sorta di superstizione arcaica.
La prospettiva di una tale estinzione comporta l’implicazione ineludibile del ritrovare le ragioni etiche e lo spessore teorico di una riflessione che deve mirare alla “rianimazione del soggetto del Desiderio”. La “scrittura”, in tal senso, anche attraverso “esercizi letterari” alla maniera di Ercolani, da un lato evocano il modo Montaliano del “non”, ovvero delle forme di negazione (“ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…), dall’altra valorizza il legame complesso fra ragione e scrittura quando quest’ultima non si rattrappisce nei caratteri di una metafisica della presenza.
Il logos in questo caso esprime, è traccia, e se allora la ragione è espressione, quali relazioni si instaurano tra espressione e scrittura?…
Si è già detto che la scrittura, come forma del logos, non ha i caratteri della metafisica della presenza, giacché gli stessi fattori che si possono contrapporre alla cristallizzazione della scrittura (la voce, l’oralità della retorica e della dialettica, le vicende dell’animo…), in una parola i segni del dionisiaco nietzschiano, non esauriscono l’esser-espressione del logos. Si tratta di vedere come la struttura dell’espressione sia…”scritturale”: un geroglifico che indica qualcos’altro. In che senso dunque “un geroglifico” non è “letteratura”?… Qui si entra nel cuore del problema: la struttura della memoria. Da una parte, la memoria “come capacità interiore”, e dall’altra l’estrinsecazione della memoria nella scrittura. La memoria come capacità interiore resta tuttavia un effetto di una scrittura-espressione, ma di una economia generale della scrittura-espressione. In effetti, la memoria come capacità interiore è “scritta dell’irrapresentabile che la abita”. Mentre l’economia ristretta della scrittura-memoria rimuove, in senso psicanalitico, l’impossibilità del “far-presente” l’irrappresentabile. Al massimo, esso lascia tracce: si esprime.