Hegel, crisi e fine della politica

II 30 agosto 1795 Hegel scriveva a Schelling: “Fra qualche tempo ti invierò forse il progetto di un qualcosa che penso di comporre e per cui ricorrerò allora al tuo amichevole aiuto specialmente per quanto riguarda la storia della chiesa nella quale io sono debolissimo”. Era il primo annuncio della “Positività della religione cristiana”, composta di appunti elaborati tra il 1795 e il 1800, scoperti da Wilhelm Dilthey e pubblicati solo nel 1907 dal suo allievo Herman Nohl. La lettura della “Positività” fa giustizia, come ricorda György Lukács nel suo “Der junge Hegel” (1948), “della leggenda reazionaria” d'un presunto indirizzo 'teologico' del pensiero giovanile di Hegel. È nella “Positività della religione cristiana” che il giovane Hegel definisce i caratteri della cosiddetta età della decadenza, l’età ellenistica, tra la gloria della Grecia e la grandezza di Roma in termini che oggi ci appaiono addirittura anticipino la crisi e la fine della politica, della sua autonomia.

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Guerre fortunate, l’aumento della ricchezza, l’abitudine a sempre maggiori comodità di vita e al lusso crearono in Atene e in Roma un’aristocrazia di armi e di censo che acquistò dominio e influenza su molti uomini, i quali, sedotti dalle sue gesta e ancor più dall’uso che essa faceva delle sue ricchezze, accettarono spontaneamente e di buon grado il suo predominio e il suo potere nello stato, coscienti di averglielo dato loro stessi e di poterglielo ritogliere alla prima occasione di malumore. Ma via via questi aristocratici finirono col meritare un rimprovero che così spesso è stato loro rivolto, cioè di essere ingrati e, nella scelta fra questa ingiustizia e la libertà, di preferire la prima, quando poterono esecrare le virtù di un uomo col dire che arrecava rovina alla loro patria. Ben presto quel predominio, prima liberamente concesso, venne sostenuto con la forza; e che questo sia potuto accadere già presuppone la perdita di quel sentimento e di quella coscienza che Montesquieu pone a principio delle repubbliche con il nome di virtù e che consiste nell’ esser pronti a sacrificare la propria persona per un ‘idea che per i repubblicani è realizzata nella loro patria.

Scomparve dall’anima del cittadino l’immagine dello stato come un prodotto della propria attività; la cura e la sovrintendenza del tutto riposò sull’anima di uno solo o di pochi; ognuno ebbe un posto a lui assegnato, più o meno delimitato e distinto da quello degli altri; il governo della macchina dello stato fu affidato ad un ristretto numero di cittadini che servivano soltanto come singole ruote di un ingranaggio che hanno valore solo nella connessione con le altre. La parte assegnata a ciascuno nell’intero ingranaggio era, in relazione a questo, così trascurabile che il singolo non aveva bisogno di conoscere o di avere dinanzi agli occhi tale relazione. L’abilità nella cosa pubblica, ecco il grande fine che lo stato poneva ai suoi sudditi, mentre questi nel suo ambito non si proponevano che guadagno, autoconservazione e forse vanità. Ogni attività, ogni fine era riferito ora all’individuo; non vi fu più alcuna attività rivolta al tutto, ad un’idea. Ognuno lavorava per sé o era costretto a lavorare per altri individui. Scomparve per i cittadini la libertà di ubbidire a leggi che si fossero date da sé stessi, la libertà di seguire in pace i magistrati ed in guerra i comandanti da loro scelti, di realizzare piani elaborati col concorso di tutti; scomparve ogni libertà politica; il diritto del cittadino dava solo il diritto alla sicurezza della proprietà che riempiva ora il suo intero mondo. La morte, il fenomeno che gli distruggeva l’intera trama dei suoi fini e l’attività di tutta la sua vita, dovette essere per lui qualcosa di terribile, poiché nulla gli sopravviveva. Al repubblicano invece sopravviveva la repubblica e gli stava sempre dinanzi il pensiero che essa, sua anima, era qualcosa di eterno.

[Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La positività della religione cristiana]

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