Tutt’a un tratto c’è un’idea e vuole essere realizzata, tutta la nostra vita, tutta la nostra esistenza è fatta solo di idee che vogliono essere realizzate, se questa condizione si interrompe si interrompe la vita, subentra la morte. Siamo fatti solo di idee che sono nate in noi e che noi vogliamo realizzare, che dobbiamo realizzare, perché altrimenti siamo morti, così Roithamer. Ogni idea e ogni perseguimento di un’idea in noi è la vita, così Roithamer, la mancanza di idee è la morte. E per quanto la persona che abbiamo preso in considerazione possa sembrare semplice, non lo è mai, allo stesso modo per quanto possa sembrare complicata, così Roithamer. La mancanza di idee nell’uomo è la sua morte, così Roithamer, e quanti uomini sono privi di idee, totalmente privi di idee, non esistono. Thomas Bernhard, Correzione, Adelphi, pag. 291.
Nella classica traduzione di Giovanna Agabio, la casa editrice Adelphi continua con questo volume, apparso la prima volta nel 1975, la pubblicazione delle opere dello scrittore austriaco. L’idea di Roithamer, – una delle figure portanti del libro che George Steiner considerava il capolavoro di Bernhard, – l’idea che lo rende vivo, l’ossessione di Roithamer (una vera idea non è sempre un’ossessione?) è un audace progetto architettonico. Un cono, in pratica. Una costruzione che deve essere perfetta, una dimora utopistica e felice, un progetto folle secondo gli abitanti del luogo e forse irrealizzabile, ma che lui, Roithamer, realizza, facendo uso di tutte le sue risorse economiche e mentali, nel centro esatto della foresta del Kobernausserwald. E lo attua per l’unica persona da lui veramente amata, la sorella. In esergo, è riportata una frase che, forse, è la chiave per entrare in questa complessa ossessione che per Bernhard è il linguaggio, l’arte, o l’opera perfetta. “Perché un corpo sia stabile, è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio che non si trovino in linea retta”. Una frase pronunciata da Roithamer, che è uno dei tre punti. Gli altri due sono il narratore anonimo e Höller, l’imbalsamatore di strani uccelli neri. Ci si chiede perché devono essere tre. Perché in una struttura narrativa ci devono essere tre punti d’appoggio e non uno, che di solito è il narratore che, oltretutto, non è mai impersonale? Perché questa struttura triangolare che nel libro si compie in una figura conica, e per di più situata in un centro che è esattamente il fulcro del Kobernausserwald, e dove scorre il torrente più rumoroso e violento della valle e dove Höller ha costruito la sua casa, l’unica a non essere distrutta dalle inondazioni e dalle forze devastatrici del suo torrente? Bernhard – che non è il narratore adespoto del libro chiamato da Höller nella sua soffitta che in precedenza è stata quella di Roithamer, a sistemare, meglio a esaminare e riordinare l’opera di Roithamer, morto suicida subito dopo la morte della sorella, morta a sua volta dopo la realizzazione dell’opera impossibile, cioè dopo la costruzione del cono – è l’ideatore del libro, in altre parole di quella struttura e di quei personaggi che gli permettono la sua di opera, che è quella di costruire la sua scrittura, la sua cifra ossessiva, quella di un linguaggio perennemente in rivolta con se stesso e con le consuetudini balorde di una logica che è sì ragione ma non del tutto razionale. Una scrittura, quindi, ossessiva e reiterata, ma anche opprimente e devastante. Un artificio, quello di esistere stemperato o aumentato nei tre personaggi, che gli permette di poter dare musicalità al linguaggio in un ordine del tutto fuori dalla norma e dalle consuetudini e, nello stesso tempo, di poter avere una libertà illimitata di riflessioni che permette all’autore la sua viscerale esplorazione delle prepotenze dell’uomo e dell’orrore del mondo, così come delle possibilità e delle impossibilità del pensare, dei suoi limiti come anche delle sue correlazioni, attinenze, legami, “poiché il pensatore non solo deve meditare sul suo sapere, ma anche su tutto il resto, che, logicamente, è sempre connesso al suo sapere, come viceversa tutto il resto è connesso al suo sapere, cioè le sue possibilità o impossibilità o probabilità o improbabilità sono sempre connesse a tutte le altre”. Politica, arte e natura s’intrecciano in questo romanzo capolavoro. Politica come ciò di cui non si può non tener conto. Politica come quel divenire “che decide sempre del mondo e trasforma il mondo e quindi annienta il mondo”.
Dell’arte come ciò che esprime il vero sapere nella solitudine di una fascinazione negativa, devastazione, disfacimento, oppressione, corruzione. E infine la natura. Le scienze naturali sono il mio vero sapere, scrive di sé Roithamer. Figura sapiente, provvista di doti intellettuali superiori, insegna a Cambridge, Roithamer s’integra e si perfeziona nelle altre due figure, dell’imbalsamatore e del narratore anonimo, in qualche modo perché esse sono ciò che va a situarsi all’estremità del pensiero, sono come dire delle appendici essenziali che gli permettono sia di realizzare l’opera (il cono, il romanzo, o ciò che sia la scrittura) di smontarla fino all’ultima correzione, in altre parole di estinguerla, di annientarla, umiliando sia essa stessa sia la vita. “Il fatto che tutti pensino sempre di uccidersi ma non si uccidano, dissi, determina l’equilibrio di un popolo”. L’invettiva di Bernhard contro l’Austria è tema risaputo, ma qui assurge a immagine universale di sofferenza e di contrasto tra la dimensione di razionalità e insensatezza, assurdità e contraddizione dell’esistenza che Bernhard, per tutta la vita e in tutte le sue opere ha sempre cercato in qualche modo di conciliare, pur sapendo dell’impossibilità di poter scrivere o “costruire” ciò che sia risolutivo o duraturo. Una scrittura finale, un’opera suprema. Ultima, insomma. L’opera, alla maniera di Nietzsche, è ciò che vale l’esistenza. Si fa, deve essere costruita, ma nello stesso tempo, per Bernhard, deve essere demolita, annullata, annientata. Perché il suo dire non ha senso. Non ha senso la sua scrittura. Non ha senso il suo potere. E, infine non riesce e, forse, non può dire ciò che andrebbe detto, ma non per mancanza di coraggio, semplicemente per il freno stesso del linguaggio e, di conseguenza, del limite e dell’insoddisfazione naturale.
“Gli uomini devono sempre confrontarsi con qualcosa che li mette in uno stato d’agitazione e d’inquietudine, sempre soprattutto nel momento in cui credono di poter stare tranquilli, sono ricacciati subito nell’inquietudine, e quando credono di aver raggiunto un equilibrio si ritrovano nella condizione opposta. Abbiamo sempre solo l’illusione della quiete, perché nel momento in cui la quiete potrebbe subentrare in noi, potrebbe, potrebbe, potrebbe, dico, ci troviamo di nuovo in uno stato di estrema inquietudine”. Una scrittura, a questo punto, quella di Bernhard di una musicalità ossessiva e riflessiva degna di un maestro, che invita il lettore a uno stato d’incantamento perché non solo leggiamo le vicende dei protagonisti, ma leggiamo noi stessi presi da un senso claustrofobico che non ci permette di uscire sia dalla valle del Kobernausserwald sia dalla soffitta, ma soprattutto non ci permette una divagazione né un appoggio saldo. Si è nella morsa stretta della scrittura che non sa limitarsi nella sua correzione continua e senza fermi. “Correzione della correzione della correzione, della correzione, così Roithamer”. È in questo incessante scorrere della scrittura che richiama l’impeto del fiume silenzioso e assordante che scorre nella valle, che Bernhard ci lascia un romanzo veramente notevole, perché lui sa, come sanno Roithamer, Höller e il narratore anonimo, che “quando è giunto il momento noi non sappiamo che il momento è giunto, ma è il momento giusto.”
Thomas Bernhard, Correzione, Adelphi, pag. 291