Laura Caccia: poesia, ossigeno a ogni voce insorta

Ci sarebbe molto da scrivere su questo libro che non ha niente di “melodioso” e niente di approssimato, ma solo un Niente da interrogare

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è il corpo che legge che naufraga ovunque nei fogli/dell’umanità fuori pagina fuori misura il sogno minerale/l’amnesia una sutura ai cigli delle strade senza riuscire a/toccare con mano l’ombra dei giardini sottopelle febbre e/pane lasciati su gradino senza smarrire tutte le apocalissi/private tra gli infissi del mattino tutta la tenerezza a portata/di mano la voce oltre l’orizzonte nel buio espugnato della/sera epifania di moltitudini a saldo di estinzione a/respirarne il lato ferino un assolo di grido a percussione/niente a inchiostrare di sangue ogni assenza sbadata/quanto meno uno stato di emergenza a provare che la/parola è un destino una materia scorticata di luce qui dove/l’universo è solo. Laura Caccia, Le voci insorte, Book Editore, pag. 127.

Un libro spietato questo di Laura Caccia. Una raccolta dura quanto immensa e lucida nella sua estensione abissale. E come potrebbe essere diversamente quando ad apertura e chiusura del volume leggiamo due scritti di Paul Celan? L’ultimo, più compatto e quasi a epigrafe riassuntiva dell’intero corpo di scritti che vanno dal 1999 al 2003, è anche indicativo di un’opportunità che permette di dare un non colore al linguaggio, il grigio, e pertanto di offrire un’entratura a un “testo” che preso nel suo insieme è di una complessità veramente devastante. Si entra in una lingua che non offre vie di fuga se non quella magmatica di sensi e di elusioni, – com’è potuto accadere che ci siano cose/cui non abbiamo dato voce – di materia ricercata, di materia che siamo, di corpi offesi, di genocidi in cui s’incunea lo smercio del mondo, “di quale vita si fa cenere/nostro esercizio quotidiano”. Tuttavia, la presa è la scrittura. Intollerabile e dispersa in una rigidità senza punti e senza virgole. Una scrittura per lo più incognita, come se venisse non dalle viscere di un corpo, dalle sue cellule esangui e pure, ma da un attraversamento continuo di vertigini e fiumi scorrenti, sotterranei, non di acqua limpida ma di lava incandescente che si è rappresa nelle sue forme vaghe e intollerabili. Una bellezza minore “adorna e spoglia nel suo ritrarre e ritrarsi”. Caccia scrive questi testi in un tempo di passaggio, in un momento fuori misura (ogni millennio lo è?) ma comunque in un tempo (Aion?) che è pienezza poetica vulnerabile quanto capace di mettere voce a un mondo che ha perso ogni immediatezza in nome di una decifrabilità insulsa, semplificata e mai controversa. E in “un sommerso che non ha pace”, la poesia non può fare altro che essere impensabile e oltraggiosa, “questa voce non è voce”. Scarto e immediatezza, quindi. Incomprensibilità e desiderio. Ricreare il mondo da una “voce interrata e sepolta”. Una voce eterna. Una lingua degli inizi, dei tremori, della meraviglia paziente e indimenticata, “… per altro spinta indietro, sillaba, presillaba, sibilla”.

Laura Caccia è filosofa. Sa che ogni testo è muto, apprende che non regge nessuna visione, che alcun nome s’inoltra e che tutto si scardina e si sgretola. Eppure, “la sfocatura nonostante la sua messa a fuoco”. Le voci insorte sono un libro lavico, sussultorio, immenso nel suo essere risolto ma mancante. È suddiviso in capitoli titolati: A corda di vento (La scordata). Crepavoce (La sincopata). Preludi (L’anacrusica). Cuore distorto (L’aleatoria). Resine (La risonante) Ciotola d’ombra (La diminuita). Magmatiche (La spartita). Ceneri (L’ostinata). Le labbra emerse (La dissonante). Non hanno nessuna contiguità logica, ma soltanto temporale. C’è la sapienza del tempo in questo libro. C’è la sapienza della laboriosità e della riflessione compressa, soffocante e ovunque respirata a pieni polmoni. Nessuna brezza se non quella della lingua e della dedizione. “quella lingua inguarita d’ambra e di luce”. Il linguaggio non è la verità. Forse, è solo un modo di chiedere voce al verso e vulnerabilità alla parola. Forse di esperire il mondo. O di darne un indizio. “e ogni cosa non è e insieme resta”. Si è ai margini dell’interrogazione profetica, si è in esilio di significazione, si è in confidenza con una lingua sacra che ha di profano il suo insorgere, il suo bussare intorno, il suo “in levare” e in battere. Il ritmo dell’anacrusi è, di fatto, una battuta incompleta, una nota debole, che non c’è, come se non si potesse iniziare dall’inizio. Come se non esistesse l’inizio? Una voce che non ha vibrazione, rumore, suono? E che voce è, allora, questa negazione di voce? Che cos’è che si eleva o si abbassa a valore? Non certo l’Essere. Non certo la verità. Non certo una fondazione. Si è in un’estensione di linguaggio in cui gli opposti formulano essenzialmente ciò che solo può darsi nella vera presenza (οὐσία). Quest’accidente, che è l’espressione poetica, è vicinanza dell’apparire proprio nel momento del ritrarsi o del rifiuto. Heidegger ne indicherebbe la risonanza dell’Essere perché Evento. C’è un’esigua ricerca poetica, negli ultimi anni, che sembra potersi avvalere delle ultime riflessioni del filosofo tedesco circa l’in-determinazione della parola “evento”.

La poesia di Caccia, così come di pochissimi altri, è un chiaro tentativo di rimozione metafisico per ciò che è essenzialmente un altro avvio. Questi testi, così magistralmente raccolti, e rivisti in questa edizione ne sono semplicemente una chiara e pregevole testimonianza, oltre che un preannuncio, un preludio, per usare le parole del filosofo tedesco, che accetta l’oltrepassamento per un altro inizio, sia della filosofia sia della poesia, ormai irrimediabilmente compromesse, e che s’implicano e che sono inseparabili, indissolubili, inscindibili. Non cura, o anche cura come potrebbe apparire a una solitudine espressa con legge di fioritura mortale, ma la parola “ardua di luce”, dissonante, “a brani e cretti verso un’altra bufera”. Tutto l’oscuro sembra farsi carico di questo sorgere e insorgere di ciò che nella sua infinitezza non è altro che sempre la stessa parola, “dimora senza accordatura” ma voce indissociabile e dissoluta. Poesia. “Benché minuscola riverberi la morte sottratta alla sua grazia nelle braci di un canto che scordi il suo dopo scucita a tratti di nulla e nulla di fatto”. Poesia. Dentro i secoli nei secoli e per sempre. Ci sarebbe ancora molto da scrivere su questo libro che non ha niente di “melodioso” e niente di approssimato, ma solo un Niente da interrogare. E meglio a mani nude. Come si vorrebbe toccare l’argilla, la voce approssimata, il pane che lievita. L’ossigeno a ogni voce insorta. Ci si ferma qui, ci sono dei libri, e questo lo è, che vogliono essere avvicinati con discrezione e riserbo e che vanno solo imbastiti. Libri che disarmano altre lingue. Libri che ustionano. E per l’atroce meraviglia. 

Laura Caccia, Le voci insorte, Book Editore, pag. 127

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