Irrompe
un rumore d’ali
plana sui tetti
Il silenzio è dei morti
per noi vivi c’è solo lo stare
dove nessuno chiama.
Questa lirica è tratta da Antonella Sica, Corpi estranei, Arcipelago itaca, pag. 68. È una raccolta che si pregia della prefazione di Camilla Ziglia. Il libro è diviso in quattro parti. La prima, “Corpi estranei”, dà il titolo all’intera opera. Segue “Ho una bambina sulla schiena”, poi “La condanna alla luce”, e “Dove nessuno chiama”. Infine un altro testo, – ancora un corpo estraneo? – questa volta, però, a chiusura definitiva di questo prezioso e apparentemente tenue lavoro di poesia.
Il libro è stato gratificato come opera vincitrice della “XXII edizione del Premio InediTO – Colline di Torino”. Sì, proprio così si diceva, tenue, cioè lieve, sopportabile, comprensibile, ma a guardare bene potente e straordinario, nel senso di singolare e sviante. Anche paradossale, come fa ben osservare la prefatrice: “Questa raccolta distilla come alambicco gocce di paradosso”. Ziglia è chiara, c’è una doppia incrinatura: l’ordinario, il banale, il comune e l’estraneo, l’avulso, il separato. Non sorprende, quindi, la capienza del linguaggio a rivelarsi appena si discerne che negli interstizi di tempo e di spazio che la poetessa si riserva, – sono quelli che danno accesso al suo logos autentico – c’è tutta la sua volontà di comprendere o di decifrare. Non una presa sul quotidiano, che pure ha una sua valenza di superficie rada, ma il bisogno di una realtà vera. In pratica, la necessità di cose indivise, piene, compiute. Perfette? Nella bocca che di notte digrigna/c’è il sogno di un canto/che squarcia gli angoli come petali/sciolti dall’abbraccio al primo sole/un canto di pace e di spine/mela spaccata dalla caduta/che si ostina a essere intera. Che cos’è questa irriducibilità, questa caparbietà a insistere, a misurare una luce che tormenta pur nella sua evidenza scomoda, crudele, ingenua? La luce non sempre racconta, non sempre dice. I suoi tagli, spesso, sono delle chiuse che non lasciano scampo, laceri che non disarmano le ombre. L’estraneo è ciò che la luce, meravigliosa sazietà e chiarore, non riesce a scalfire se non nel suo passo diveniente. Ciò che è tutt’altro dal poetico, dalle sue rette nostalgiche, dalle sue scie improvvise e capovolte. Che cos’è, d’altra parte, il poetico se non l’attesa di un accordo, la sospensione di una proiezione, di un cono di luce che non può arrivare dove si vorrebbe, una parola che non si lascia annidare. C’è nella poesia di Antonella Sica una sorta di attesa di ciò che è da venire, ma che è già dietro. Ecco la nostalgia, ma ecco anche l’oscurità. Forse, perché il trauma è l’origine di uno sguardo, quello della poesia, che si ostina sia a non essere legittimato a stare al mondo, sia a essere illeggibile o indicibile. Insomma, la poesia ha necessità di una lingua che ogni volta deve essere nuova, inventata e interrogata. Qui, in questa raccolta, che ha l’avvenenza di un assiolo, s’intravede ciò che un linguaggio poetico deve essere pur nel suo disarmo. “Spesso canta il lupo nel mio sangue/e allora l’anima mia si apre/in una lingua straniera”. Sono le parole di Mariella Mehr, una poetessa straordinaria che, forse, fa riflettere su ciò che il linguaggio, nella sua pretesa di nominare, lascia scoperto. Come se una lingua dovesse per forza eccedere nell’oscurità, nel differente, nell’estraneo. Come se non avesse altra via che esulare, sconfinare, e contenersi. Si può dire che tutto il modo di stare della poetessa genovese, ma di origini campane, e si percepisce bene questa sua stirpe mediterranea, – qui si aprirebbe un capitolo lungo che si preferisce in qualche modo glissare – stia in questo rapporto serrato con le ombre. La luce come ogni uomo o donna del sud sa, non illumina, ma riscalda e tace. Al più, allude. Nell’emersione dell’ombra, quindi, non si ricrea una sapienza, ma un’attesa di mistero.
L’enigma dell’oscurità si completa nel suo punto di contatto o di limite con la luce, che è sempre toccante ma mai decisiva. Non un appiglio, neanche un abbraccio, ma un precipitato di detriti che sono l’esistenza, sono “la begonia smarrita nel vaso”, sono “la sera dilaniata dai cani”, sono “il peso delle chiavi fra le mani”. C’è una ricerca di parole semplici ma tese verso quell’oscurità essenziale e vitale che è l’ombra capace di travolgere e di frantumare. E, quindi, di ri-creare, di ri-generarsi. “Quel corpo di donna disteso senza sonno/cerca una radice da piantare/la notte chiusa fuori dagli scuri/chiede d’entrare per fare disordine”. In pratica, la luce non placa, e non può mitigare, sedare, pacificare. È essenziale la notte! È essenziale quel luogo, dove nessuno chiama. E dove nessuno può recedere dal guardare. È il luogo dove il linguaggio si fa corpo estraneo. È il luogo del tempo immemore e memorabile. È il passato nella sua valenza estatica, infantile e familiare. È il linguaggio nella sua conturbante visionarietà e salvezza. Anche insignificanza, candore, durezza. “Una medusa arresa alla risacca/sulla sabbia muore, al sole/sale un odore d’oscena intimità”. Alla fine sembra che a parlarci non sono le cose ma il linguaggio nel suo intrigo con una luce pendente o con l’ombra di una mano che scrive. Si colonizza il bianco, scrive la poetessa, ma si risorge inospitali. Il linguaggio poetico richiama sempre inadeguatezza, ma è l’unico linguaggio possibile per guardare la realtà e per eluderla.
Antonella Sica scrive un bel libro. Noi che siamo sempre in ascolto, siamo contenti di leggerla. E se anche le sue parole premono sulla schiena, d’ora in avanti sarà più facile un gesto d’attenzione. Forse, c’è nella scrittura del poeta un segno estremo che fa erompere la parola trattenendola. Nel paradigma dell’espressione ciò non può significare altro che una divisione metaforica, ma anche un proposito liberatorio di analogia. O una vocazione ossimorica. “Una palude improvvisa/ingoia il sole”. O, forse, il linguaggio è solo un sogno. O, daccapo, una delle tante forme instabili del vivere.
[Antonella Sica, Corpi estranei, Arcipelago itaca, pag. 68]
Antonella Sica, genovese, è laureata in Lettere Moderne. È regista e manager culturale in ambito audiovisivo e cinematografico. Ha fondato e co-diretto il “Genova Film Festival” dal 1998 al 2015. Ha diretto e realizzato cortometraggi di fiction e documentari selezionati e premiati in diversi Festival. Tra i suoi lavori emerge Ballata Trash, cortometraggio con il poeta Edoardo Sanguineti. Ha pubblicato Fragile al mondo (Prospero 2015), La memoria nel corpo, (Rayuela 2018), L’ira notturna di Penelope (Prospero 2022), con prefazione di Donatella Bisutti.