L’uso ipocrita delle parole

Nel maggio dell’89 Natalia Ginzburg insorgeva contro il linguaggio “politicamente corretto”. Da allora, l’elenco non si è certamente ristretto: i “portatori di handicap” sono diventati “diversamente abili”, anche se una infinità di barriere rende loro impraticabili le nostre città. Mentre una grande parte del Paese chiama “clandestini” gli stranieri migranti, e i cori razzisti risuonano negli stadi…

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Nella nostra società attuale, è stato decretato l’ostracismo alla parola cieco e si dice invece non vedente. È stato decretato l’ostracismo alla parola sordo e si dice non udente. Le parole non vedente e non udente sono state coniate con l’idea che in questo modo i ciechi e i sordi siano più rispettati. La nostra società non offre ai ciechi e ai sordi nessuna specie di solidarietà o di sostegno, ma ha coniato per loro il falso rispetto di queste nuove parole. Le troviamo artificiali e ci offendono le orecchie e francamente le detestiamo. Quel bellissimo racconto persiano, che si chiama “La civetta cieca”, dovremmo ora chiamarlo “La civetta non vedente”? Dentro di sé in verità la gente continua a dire cieco o sordo, ma ad alta voce dice non vedente e non udente, per un male inteso senso di docilità e perché i giornali e la società pubblica fanno sfoggio di quel loro falso rispetto.

Per la stessa motivazione ipocrita, per lo stesso falso rispetto, i vecchi vengono chiamati gli anziani, come se la parola vecchiaia fosse una parola infamante. In verità non si capisce perché la parola vecchiaia debba essere considerata infamante o oltraggiosa, indicando un’età dell’uomo a cui nessuno può sfuggire se vive. Oltraggioso è invece il modo come viene trattata, nella nostra società, la vecchiaia.

Sempre per la stessa motivazione ipocrita, le donne di servizio vengono chiamate colf, collaboratrici domestiche, con un’abbreviazione che si reputa graziosa. Però noi tendiamo abitualmente a non collaborare affatto alle faccende domestiche o a collaborare molto poco e le cosiddette colf nelle nostre case fanno tutto loro. Per gli spazzini, è stata coniata la parola operatori ecologici. Dentro di noi non abbiamo smesso di chiamarli spazzini, ma sappiamo che è stata coniata per loro questa parola grottesca, da una società che ignora l’ironia e che ritiene di poter coniare e diffondere a getto continuo le proprie irreali parole. Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che ne fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo.

Sempre per le stesse motivazioni ipocrite, la società impone di non dire neri o negri ma dire invece “persone di colore”. E perché? di quale colore? Nella parola nero o negro c’è forse qualcosa di oltraggioso? I neri parlando di noi non dicono forse i bianchi? Il termine “persone di colore”, pudico, cauto, cerimonioso e impreciso, non è forse più oltraggioso, più discriminante della parola neri che già esisteva e che è vera?

Abbiamo tanta paura della realtà? Abbiamo tanta paura della malattia e della morte, da astenerci dal pronunciare la parola cancro e credere di dover dire sempre “un male incurabile”?

(…) A volte le parole che sentiamo usare e che infine usiamo noi stessi per docilità, non sono soltanto ipocrite, sono aberranti. Lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti, viene ora costantemente chiamato olocausto. Se cerchiamo la parola olocausto nel vocabolario, troviamo scritto: “sacrificio a Dio d’una vittima”. Dov’era il sacrificio e in nome di quale Dio sono stati ammazzati milioni di ebrei nelle camere a gas? Non è stato un olocausto, è stato un genocidio. Non c’è stato nessun olocausto nel nostro secolo. C’è stato un genocidio. Nel coniare la parola olocausto, è palese l’intenzione di dare una dignità storica e religiosa a un evento dove la religione e la dignità storica erano del tutto assenti. Anzi nel ricordarlo vi scorgiamo l’assoluta assenza d’una idea che non fosse morte e distruzione. Nel chiamarlo olocausto si è voluto giustificarlo e nobilitarlo. Perciò la parola olocausto è oltraggiosa per la memoria di quei morti. Fu un genocidio. Portò nel nostro secolo un’idea dello sterminio che non c’era prima, lo sterminio calcolato e studiato a un tavolo, quietamente, a freddo e senza passione. In seguito, di nuovo senza passione e quietamente, altri esseri sedettero a un tavolo e progettarono delle stragi. L’importanza di quei tavoli e l’inesorabile quiete di quei calcoli non devono essere dimenticati. Allora, i nazisti a quei calcoli diedero un nome: “soluzione finale”. Era atroce ma tuttavia forse meno ipocrita della parola olocausto.»

[Natalia Ginzburg, L’uso delle parole, “l’Unità”, 28 maggio 1989 (ora in Non possiamo saperlo)].

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