Via i falsari super-finanziati della cultura

Gli enti pubblici dovrebbero garantire la finalità pubblica della cultura sostenuta col denaro di tutti, invece stanziano ingenti fondi a società di comodo, inventate da personaggi o nuclei familiari culturalmente inadeguati, che propongono programmazioni artefatte, magari copiate senza pudori da iniziative realizzate altrove e già con il fiatone degli anni. Una intollerabile decadenza

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Un fiume di denaro pubblico per finanziare attività che non hanno alcun valore culturale

Qualche anno fa, Pier Luigi Belvisi, docente di Economia politica presso l’Università di Roma, si pose il problema del finanziamento delle attività culturali e riprese un interessante studio sull’argomento di Tommaso Padoa-Schioppa. Il noto economista, rivalutando la teoria dello studioso Rudolf Steiner (1917), individuava tre sfere di attività all’interno del sistema sociale: giuridico-politica, economica e culturale. La prima regola i rapporti tra persone; la seconda riguarda la produzione di beni e servizi; la terza segue le vicende relative allo sviluppo e analizza le attitudini degli individui, nel momento in cui concretamente si manifestano. Si tratta dunque di tre aree autonome ma interconnesse in un sistema sociale tripartito che presuppone, appunto, una grande vivacità del settore culturale, tale da giustificare sostegno e investimenti di risorse pubbliche in suo favore. In Italia questo presupposto manca, ma le risorse pubbliche sono erogate comunque: la quasi totalità delle attività culturali, di cui la stagione estiva è un potente propulsore, non ha infatti la forza di stare sul mercato. I ricavi maturati non pareggiano i costi di organizzazione e allestimento, spesso rilevantissimi: interviene così il finanziamento “necessario” del sistema sociale, che sostiene tali iniziative con il denaro della collettività. Una delle motivazioni del soccorso dell’ente pubblico di turno è costituito, perlomeno formalmente, dall’intento di generare le cosiddette “esternalità positive”, volte ad apportare benefici non soltanto ai fruitori delle attività proposte, ma alla comunità intera: l’acquisizione di una più spiccata coscienza di sé dovrebbe, infatti, favorire, gramscianamente parlando, le relazioni con gli altri.

Il tema è ampio e scivoloso, soprattutto in una società di massa che alla cultura preferisce lo svago e l’autocelebrazione del selfie. Per cui, lasciando fuori da questa riflessione il finanziamento alle attività strutturate – dagli allestimenti teatrali agli Stabili all’editoria o agli spazi archeologici nei quali sono allestite attività museali o di promozione –, limitiamo l’osservazione al profluvio di attività inutili che fioccano per ogni dove (rassegne, festival, happening, premi e altre amenità, vuote come un uovo) nel tentativo di sfangare molte aree territoriali da una ritualità che, promuovendo il valore quasi mistico del non senso, è ormai diventata una provocatoria e intollerabile profanazione.

La vivacità culturale del sistema tripartito

per un’adeguata tutela dell’intera società

La vivacità culturale del sistema tripartito sta per utilità riferita ai soggetti consumatori della proposta, ma anche a fasce più ampie rappresentative dell’intera società. Non si spiegherebbe altrimenti l’utilizzo del denaro pubblico. Immaginate il finanziamento di una rassegna che, con il sostegno di un’abile propaganda, costruisca di sé una apprezzabile immagine pubblica ma non lasci sul territorio dove nasce e si svolge alcun segno tangibile di trasformazione sociale e costruzione di comunità; ebbene, in quel caso, come spiegare il contributo pubblico, se non con una forzatura della relazione ripresa e rilanciata da Padoa-Schioppa e una lesione dei diritti della collettività? Eppure, l’Italia e il Mezzogiorno in particolare pullulano di rassegne senza alcun senso comunitario e orfane di trame progettuali finalizzate alla società intera. Sono rassegne che, come Minerva dalla testa di Giove, nascono armate di sostegni e adesioni preventive, muovendosi in un’area di privilegio che le esime da ogni valutazione critica sulla loro validità e opportunità. Si tratta di onerosi passatempi prodotti dalla para cultura del post-pensiero, abilissima nell’allestire vetrine luccicanti per vendere aria fritta. Si assicurano così utili destinati al singolo promotore e al suo gruppo di sodali che, con un’ideuzza in grado di far colpo o con un banale copia e incolla, trovano la sponda giusta (elemento cardine imprescindibile del progetto), ottengono il finanziamento e il gioco è fatto. Raggiungono quindi guadagno e rilievo sociale, senza avere assicurato alcuna autentica ricaduta culturale sulla collettività. Si tratta per di più di personaggi improvvisati, privi di capacità interpretative della cultura contemporanea e della relazione tra il passato e il presente di un territorio o di una comunità. Dalle loro iniziative nascono contenitori culturali vuoti, blindati dalle relazioni politiche e fortificati con ingenti risorse pubbliche, che potrebbero essere destinate invece a un’autentica promozione culturale della collettività anziché agli insulsi show permanenti dei soliti (ig)noti. Di questa desolante situazione sono testimonianza ulteriore gli ultimi drammatici rapporti sui giovani meridionali: moltissimi alunni delle scuole superiori del Mezzogiorno non sono in grado di cogliere il significato di un testo. Non riescono, cioè, a leggere un brano e a comprenderne il senso, dimostrando di non sapere scendere sul terreno operativo del linguaggio. Il che è tragicamente paradossale, dal momento che è appunto il linguaggio il principale strumento di partecipazione e inclusione nella vita sociale, nonché il perno di ogni possibile discorso. Si rende perciò necessario uno straordinario “piano Marshall” culturale, con docenti sensibili alla formazione umana e civica o anche con operatori esterni qualificati per la promozione di letture guidate straordinarie. Il che garantirebbe un utilizzo del modello linguistico che potrebbe, una volta acquisito, essere superato per una riflessione più matura sulla realtà che ci circonda ma che resta estranea a molti. Scegliere questa modalità di azione significherebbe ricercare per davvero le “esternalità positive”, investendo il denaro pubblico con finalità socialmente apprezzabili.

Programmazioni artefatte per sottrarre

denaro allo Stato senza utilità pubblica

Invece, avviene il contrario. Ci troviamo così sommersi da programmazioni artefatte, magari copiate senza pudori da iniziative realizzate altrove e già con il fiatone degli anni, e si procede a tentoni con proclami e petizioni di principio che capovolgono il concetto più spendibile e contemporaneo di cultura, che è quello di seminare dubbi e non certezze, come ci insegna Umberto Eco.

L’attività degli enti pubblici dovrebbe garantire la finalità pubblica della cultura, senza scivolare dal terreno discrezionale a quello dell’arbitrarietà, mettendo da parte ogni seria valutazione delle iniziative proposte, come purtroppo accade con lo stanziamento di finanziamenti altissimi di decine di milioni di euro in una sola regione o anche in una sola provincia, con grave danno per la finanza pubblica e per i destini stessi delle comunità. Finanziamenti elargiti talvolta a società di comodo, inventate da personaggi o nuclei familiari culturalmente inadeguati.

Una spudorata operazione truffaldina

di cui beneficiano soggetti inadeguati

Una spudorata operazione truffaldina favorita dalla rottura stilistica e culturale avvenuta alla metà del secolo scorso con l’ingresso in campo della televisione. Prima, nonostante gli avanzamenti della tecnica, erano le parole a diffondere conoscenza e messaggi. Anche la radio “parlava”, non riducendo la capacità simbolica dell’uomo. La (tele)visione ha imposto la modalità comoda di vedere da lontano. Vedere, non parlare. Così l’immagine, da decenni, orienta la nostra vita, l’uomo è diventato vedente, è tramontato il soggetto simbolico. Involuzione di cui beneficiano, e sulla quale speculano, gli organizzatori della nostra inattuale e ingannevole “non-cultura”, che puntano sulla notorietà degli ospiti e non sulle loro opere, quasi a giustificare così, con un ansimante neo-umanesimo delle facce famose, la validità del loro operato.

L’auspicio è che si spengano al più presto i riflettori su tale decadenza. La cultura e l’arte esigono silenzio, discrezione, studio, ricerca, dedizione. Da Kafka a Benjamin, a Deleuze perviene a noi questa nobile lezione che in troppi hanno dimenticato, preferendo le luci accese sul nulla grazie ai  soldi di tutti noi.

 

 

 

Andrea Manzi

Coordinatore di RQ. È stato redattore capo de Il Mattino, fondatore e direttore del quotidiano La Città (Gruppo l’Espresso), vicedirettore del Roma, condirettore del Quotidiano del Sud. Insegna Teoria e tecniche della Comunicazione giornalistica presso l’Università di Salerno, della quale è stato consigliere d’amministrazione. Presiede “Ultimi. Associazione di legalità ODV”. Collabora alle trasmissioni culturali della notte su Raiuno. Scrive per il teatro, al suo attivo pubblicazioni poetiche, narrative e saggistiche

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