Può l’ideologia entrare prepotentemente nello spazio artistico-estetico senza comprometterne l’efficacia e il risultato? Sanguineti, in Ideologia e Linguaggio, ci ha insegnato che un contenuto rivoluzionario non potrà mai essere veicolato attraverso un linguaggio appiattito sulla tradizione e rispettoso di un canone prodotto da altri rapporti socio-economici. Bisogna contestare la lettera e “lo spirito” di ciò che si vuole abbattere, senza compromessi e cadute; in tale prospettiva, bisogna sposare l’avanguardia senza tentennamento alcuno. Per essa, il significante ed il significato sono stati perfettamente coincidenti. Dopotutto, in quegli stessi anni, anche McLuhan osserverà che il medium è il messaggio. Ci vuole passione nella vita e nell’arte, ma nutrita da scetticismo. Perché è lo scetticismo che conforma psicologicamente l’esercizio critico. Diversamente, Pasolini, pur essendo un grande innovatore, resterà sempre prigioniero di una tensione patetica che comprometterà la sua azione sperimentale.
In Passione e Ideologia, sarà proprio questa sua ambiguità e alcuni suoi atteggiamenti votati a recuperare un mondo arcaico-primitivo, che gli costeranno tanta diffidenza e sospetto da parte di quell’intellettualità che aveva sognato la rivoluzione coniugandola “senza se e senza ma” con la sperimentazione linguistica più ardita ed avanguardista. Nel teatro del ventesimo secolo una possibile mediazione tra una visione sperimentale-avanguardista ed una più tradizionale, a me sembra essere costituita dal cosiddetto teatro epico di matrice brechtiana. Infatti, nel teatro moderno, esso ha rappresentato un radicale cambiamento rispetto alla tradizione metafisica della scena risalente all’Atene del V secolo a.C., pur non avendo immediatamente le caratteristiche iconoclaste della sperimentazione primo-novecentesca.
«Lei caro Brecht, aperse la via: per grandezza pose la distanza. Questo fu il suo contributo concreto alla storia del teatro. Perno e punto di svolta fu la rappresentazione della “Vita di Edoardo II d’Inghilterra”, a Monaco. Con essa fornì un esempio di come si dovesse dare nuova veste drammatica all’antica opera di Marlowe, raffreddandola – e avvicinarla al pubblico allontanandola». Così, il critico Jhering descriveva brillantemente la “Verfremdung” (straniamento), termine che avrà successivamente larghissimo uso nei dibattiti sui metodi interpretativi che tanto appassionavano i teatranti europei in quegli anni e che si contrapponeva alla “immedesimazione” di derivazione stanislavskijana. Questa distanza o estraneità riguardava sia il rapporto tra lo spettacolo ed il pubblico, sia il rapporto tra l’attore e il personaggio. Brecht, hegeliano-marxista, pensava che la conoscenza avesse bisogno di distacco e distanza; e così, la recitazione. Essa, doveva avere il carattere del distacco e della distanza per permettere all’attore di essere sempre razionalmente presente e mai travolto dalle onde emotive che gli avrebbero fatto perdere lucidità e coscienza. Allo stesso modo, lo spettacolo doveva essere fruito dagli spettatori con intelligenza e razionalità. Egli a più riprese dichiarerà che il suo stile drammaturgico «(…) farà appello all’intelligenza, perché l’intelligenza è leale», e ancora : «(…) Punterà su uno stile di rappresentazione quanto più possibile freddo, classico, razionale».
Come dicevo, siamo ben lontani dai furori iconoclasti dei più puri avanguardisti primo-novecento. Al contrario, Brecht fa appello ad una ideologia precisa che è quella marxista e che ha un paio di punti inalienabili: il primo, è che l’uomo è modificabile e, a sua volta, capace di modificare la realtà in cui vive; il secondo, l’esistenza socio-economica determina il pensiero e detta le forme politiche della società. Detto questo, però, è forse opportuno a questo punto del discorso dire qualcosa di più preciso sul teatro epico. Nei confronti del teatro aristotelico o “della rappresentazione”, una delle maggiori e più sostanziali differenze è rappresentata dal fatto che il teatro epico non “incarna” ma semplicemente racconta. Infatti, “epos” e “racconto” sin dall’origine sono da considerarsi termini sinonimici. Il racconto si limita ad una semplice esposizione dei fatti senza alcuna implicazione psicologica di chi narra. Nelle note a Mahagonny, Bertolt Brecht va oltre ed inserisce una tabella, una sorta di nuovo decalogo dove, indicando le maggiori differenze tra il teatro drammatico e il teatro epico, impone alla riflessione dei suoi contemporanei un nuovo canone. In realtà, Bertolt Brecht, non inventa nulla di nuovo; sicuramente, dà una maggiore consapevolezza a quegli episodi di scena epica, considerati minoritari e anomali, che pure c’erano già stati in passato. Quella che è nuova è la “Weltanschauung” che sorregge la sua ri-proposta. Un teatro che si fa strumento di lotta di classe, un teatro del e per il proletariato che si contrappone a quello borghese e reazionario di matrice metafisico-aristotelica.
Per avvalorare ancor più quanto si è detto finora, basti citare la polemica del nuovo decalogo contro la “Gesamtkunstwerk”, l’opera d’arte totale wagneriana. Wagner aveva inteso la fusione e la sovrapposizione dei vari elementi artistici come una sintesi inestricabile; Brecht, invece, propone una netta separazione tra i vari elementi che compongono un’opera d’arte. Un metodo analitico, capace di distinguere e valutare. Sarà questo a determinare un decisivo sviluppo del concetto di straniamento basato sulla dialettica e sulla fiducia nello storicismo. Il drammaturgo tedesco sa molto bene quante incomprensioni ed equivoci si nascondono nell’accettare acriticamente un ritorno dei miti originari. Sa bene che un tempo circolare, etnografico, mitico, può virare bruscamente verso derive nichilistiche e reazionarie difficilmente controllabili. “Bisogna strappare il mito dalle mani dei fascisti” , ammoniva Thomas Mann. Il mito frainteso, infatti, può avere una funzione apologetica e destabilizzante. In tale prospettiva, esso perde il suo connotato antropologico per gonfiarsi enfaticamente ed assumere un percorso sanguinario e funesto. Purtroppo, la storia successiva confermerà la sua preoccupazione. Infatti, la vecchia e saggia Europa conoscerà a metà del ventesimo secolo l’immane tragedia di una guerra folle voluta da nazionalismi esasperati che rifacendosi ai miti della “terra” e del “sangue” provocarono milioni e milioni di morti. Wagner ebbe la meglio su Brecht e il mondo, quella volta, rischiò per davvero di finire per sempre.