La crisi dell’auto: il destino comune di Italia e Germania Ogni mattina un lavoratore tedesco esce di casa, sale sulla sua solida ed efficiente auto tedesca e si reca al lavoro ; ogni mattina un lavoratore italiano esce di casa sale sulla sua automobile Fiat, magari un po’ meno solida , ma efficiente ed economica e si reca al lavoro.
Sembra in crisi la suddetta coniugazioni dei verbi, il presente non è più tale e va declinato al passato. Già da tempo il lavoratore italiano è stato costretto a cambiare mezzi e abitudini, la crisi della nostra industria automobilistica si protrae da diversi anni e i piani industriali di Stellantis non si sono rivelati particolarmente fruttuosi, pur con il sostegno degli incentivi finanziati con la spesa pubblica. Nell’ultimo periodo, si è aggiunta fragorosa, eppure non del tutto inaspettata, la crisi del sistema industriale in Germania, che nei decenni passati è stato il vero, grande traino del prodotto interno lordo dell’eurozona. La locomotiva tedesca sembra essere giunta a destinazione e ha smarrito la sua spinta propulsiva, pesantemente zavorrata dalla crescita tumultuosa dei costi delle materie prime e la Volkswagen, che per storia è un po’ l’equivalente della Fiat italiana, ha annunciato una serie di massicci tagli al personale, con conseguente mobilitazione dei sindacati che hanno proclamato scioperi in tutte le fabbriche. È la crisi dell’”automotive” europeo, della grande tradizione dell’operaio metalmeccanico del settore auto, della straordinaria epopea del boom post bellico che ha portato Italia e Germania ai vertici dell’industria mondiale dell’auto: è la fine di un’epoca, dell’ultima eredità del grande progresso industriale del Novecento.
Le vendite di auto da anni stanno conoscendo una costante flessione, la forbice tra i prezzi al listino e i redditi medi dei consumatori è sempre più larga, ma al di là delle leggi immutabili dell’economia che ruotano attorno alle variabili fondamentali della domanda e dell’offerta, forse stiamo assistendo al crollo dell’ultimo bastione del fordismo. L’organizzazione del lavoro all’interno delle fabbriche sta conoscendo una nuova, devastante virata verso processi produttivi sempre più affidati all’automazione e alla flessibilità, accompagnati dall’introduzione di misure drastiche per la riduzione della forza-lavoro e per il contenimento degli effetti nefasti dell’aumento dei costi di energia e materie prime.
Il settore dell’industria automobilistica è stato il grande traino della ricostruzione post bellica in Italia e Germania, le auto italiane e tedesche hanno letteralmente consentito alle famiglie di spostarsi dalla miseria al benessere; Volkswagen e Fiat hanno rappresentato il raggiungimento di una vita decorosa per intere generazioni della classe media e hanno dato un grande contributo al volume di esportazioni dei rispettivi paesi.
Le difficoltà del presente hanno smascherato una mancanza di adeguatezza non solo del management delle aziende, ma anche della politica industriale dei governi incapace di garantire un supporto stabile alle esigenze di famiglie e imprese; vi sono inoltre, specialmente in Italia, forti pregiudizi nei confronti di strumenti di mobilità alternativa, dell’auto elettrica, peraltro giustificati, in quest’ultimo caso, dagli altissimi costi, che hanno disallineato il flusso tra domanda e offerta.
In questi giorni si elevavano moniti e slogan in nome dell’italianità, della tradizione, del legame tra auto e cultura popolare, abitudini di massa, eppure il tema centrale deve essere la salvaguardia dei posti di lavoro, delle realtà produttive. La transizione energetica è come un impervio valico da oltrepassare, richiede investimenti, ma anche un cambiamento della forma mentis collettiva, Il compito del istituzioni e delle forze politiche dovrà essere quello di accompagnare questi processi di trasformazione, sostenendo la capacità di spesa delle famiglie e, al contempo, avvertendo i dirigenti delle case automobilistiche sulle incombenti responsabilità sociali, nel momento dovessero rendersi necessarie scelte ancora più drastiche.