Dopo la caduta dei Borboni il carnevale napoletano perdette definitivamente il ritmo. Sopravanzò il mondo della canzone. Al tempo dei re il carnevale aveva un significato soprattutto per l’aristocrazia che si divertiva a perdere tempo in continue feste mascherate, opere buffe e farse. Era un’aristocrazia che viveva di notte e la plebe, l’unica alternativa sociale, con i suoi miseri stracci cercava d’imitarla.
Oltre tutto, il carnevale nel basso popolo a Napoli si vestì sempre di festa religiosa un po’ sacrilega e non si espanse mai a una mondanità popolare come quella di Venezia – evento intorno al quale girava l’anno – o come quella abbastanza recente di Viareggio.
Ma dopo l’unità anche quel poco che si faceva andò deperendo, s’immiserì a poco più di una festa per bambini. Maschere di pochi soldi, nessuna manifestazione pubblica popolare o aristocratica. Nessuna sfilata di carri allegorici. Una festa in famiglia con qualche ballettino e soltanto oggi cerca stentatamente di risorgere con risultati modesti.
Eppure, nonostante il deterioramento esteriore il carnevale interiore a Napoli si va a nascondere nella cosa più importante della vita, nel cibo. Da questo versante pochi altri carnevali possono reggere il confronto. In altri luoghi si fanno molte chiacchiere, balli, sfilate, carri, ma poi tutto va a finire a fast-food o davanti a un desco ridotto all’essenziale. A Napoli la tavola trionfa con tutta l’eredità di estroversione barocca.
Carnevale diventa la mascheratura del cibo. È il corpo che si deve riempire di salsicce e polpette, che deve star bene, lieto di esistere, che deve scialare. Scialare per un napoletano significa buttarsi la “roba” in faccia, sognare con l’aiuto di un vino cupo e chiudere il tutto con una grande dormita.
È da questa abissale visceralità che nasce il frutto proibito (e ambito) da quasi tutta la storia plebea napoletana: la lasagna; imitazione gastronomica dei paesi mai esistiti come quelli di Bengodi o di Cuccagna. E se è vero che la mobilità di uno spaghetto o di un vermicello sta a uno “scugnizzo” vispo e saltellante, la lasagna – il cibo regina del carnevale – sta non soltanto allo spirito indigeno ma alle cattedrali, alle chiese e ai palazzi grondanti fronzoli e riccioli.
La lasagna prima di essere un cibo è un edificio. Appassionato dal cibo più semplice del mondo, la pasta, il napoletano diventa in quel giorno fatidico una sorta di cuoco-orco. Per nessun altro cibo egli mette lo stesso forsennato impegno. Chi sa cosa vuole ottenere da esso. Quale miraggio riveste; perché solo ad elencare gl’ingredienti necessari per preparare una lasagna ci vuole un catalogo. Egli userà una forma di pasta piatta, larga e lunga come una riga di disegno. La sposerà con polpettine, cervellatine (sic) affettate (salsicce sottili), mozzarella, ricotta, ova (sic), una possibile aggiunta di salame.
La lasagna è un intruglio, ma un intruglio sublime perché il tutto vien cosparso, sui tre o quattro o cinque strati, in fondo e in cima, di “ragù”, quella salsa untuosa come pece, la massima espressione della nostra cucina. Quando l’impasto si è fatto ben crostato, portata in tavola, darle una coltellata è come darle una picconata. È un palazzo che crolla polpette, salsicce e filante ricotta e mozzarella: uno dei più rari tesori culinarii (sic).
Soltanto in questo cibo si può leggere con chiarezza il carnevale napoletano; un evento in cui si concentra lo spirito di un popolo che si dà un premio per l’antica e immarcescibile fame subita nei secoli.