L’orgoglio del San Marzano

Il pomodoro lungo con pochi semi, tutta polpa nervosa, raccontato negli scritti dalla penna di Domenico Rea. Assieme al peperone, è una solanacea che diventa regina della tavola d'estate

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In estate, che molte volte a Napoli si spinge fin’oltre settembre, due solanacee sono le dominatrici delle tavole dei ricchi e dei poveri: il pomodoro e il peperone. Entrambi originarii (sic) del sud-America, sia il “solanum lycopersicum”, il pomodoro, e sia il “caspicum annuum”, il peperone, da circa cinquecento anni sono considerati i prototipi della produzione agricola meridionale in generale e campana-napoletana in particolare.

Il pomodoro, reso celebre per essere il condimento che profuma gli spaghetti e adorna la pizza – due pietanze che hanno fatto il giro del mondo – si coltiva un po’ dovunque. Ma raro e ricercato è il pomodoro San Marzano, che nasce nell’Agro Nocerino-Sarnese – e propriamente nel comune di San Marzano sul Sarno – un pomodoro lungo con pochi semi, tutta polpa nervosa, e i pomodorini di alcune zone limitrofe, che i ragazzi rubavano per farne proiettili per le loro sassaiole, e che posti contro la luce del sole rivelano filamenti paragonabili a velature delle grandi navi di una volta.

Il pomodoro, accompagnato da pane, da un filo d’olio e da una foglia di basilico, è per se stesso un pasto completo. Muratori, braccianti, operai in genere, prima dell’avvento delle mense, quasi sempre a mezzodì, preferivano questo tipo di cibo sostanzioso e leggero. Il pomodoro ha mille maniere per essere servito: crudo, secco – i pomodori impaccato – e cotto. Con essi si può preparare anche la cosiddetta “caponata”; ma dei pomodori ce ne occuperemo una prossima volta. Compagno del pomodoro, non si sa se da scudiero o da cavaliere, è il peperone che i napoletani hanno trasformato in un totem del loro dialetto priapesco e pulcinellesco, mangiandolo crudo e cotto. Più dei peperoni piccoli, adatti, seccati e sfarinati, a produrre paprica, famosi sono i peperoni grossi colorati: verdi, gialli, rosso bluastri. Il peperone è un pezzo di scultura vegetale e rassomiglia a quegli uomini tracagnotti che hanno guance ruvide e naso grosso e poroso.

I modi classici di mangiarli sono tre: in insalata, imbottiti o ripieni di pasta bucatina. Detto che in ogni caso – se si vuole digerirli senza problemi – vanno sempre passati al forno e spelati, per farli all’insalata, tolti dal forno, si affettano come tagliatelle e si condiscono con olio crudo, basilico e aglio. Una spremuta di limone ci sta bene.

Ma il modo ghiotto di cucinarli (ne era ghiotto Re Nasone) è quello d’imbottirli di pane grattugiato, pomodori spezzati, melenzane fritte ridotte a dadini, ulive nere di Gaeta e capperi o farciti di bucatini bolliti al dente, conditi con olio, pomodori, basilico, ulive e capperi e di nuovo in forno. Abitualmente, sulle tavole serve da primo piatto che si accompagna quasi sempre con piccoli polpi veraci – ossia con i tentacoli a due ventose – all’insalata, la maniera più semplice di mangiarli.

È un mangiare ultra popolare diventato aristocratico, come tutti i cibi che hanno bisogno di cura e di tempo. I borghesi, che sono i maggiori consumisti, ne hanno sentito parlare, ma lo conoscono poco.

Prima i peperoni spuntavano dalla terra in tutte le ridanciane forme presepiali: bassotti, rotondi, lunghi. Ma poiché la richiesta in Italia e in Europa è diventata enorme, i grandi produttori contadini, che si sono fatti chimici, sono in grado oggi di ottenere una produzione di milioni di pezzi tutti della stessa caratura fino al punto di poterli mettere in cassette che non ne contengono più di dieci. Il peperone, però, non ha perduto niente. Nonostante l’inquinamento, per la sua forte corazza esterna e per i suoi tessuti callosi, il peperone è uno dei pochi ortaggi il cui sapore è lo stesso del passato.

 

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