Una sera una signora del bel mondo napoletano m’invitò a cena, dicendomi che mi avrebbe servito un piatto eccezionale, nientedimeno che il pesce veloce del Baltico. Stetti intere ore a pensare che cosa sarebbe stato mai questo “pesce veloce del Baltico”. Certo un pesce nordico, raro, squisito. Ma quando andammo a cena nel piatto mi venne servito ciò che a Napoli ha un nome e una tradizione leggendari: il baccalà. Per la verità la signora l’aveva cotto alla vicentina e certamente fu gradevole; ma la nobildonna aveva voluto strafare, mentre mantenendosi nel locale, mi avrebbe potuto cucinare il baccalà in maniera altrettanto squisita, se non superiore.
Col baccalà io ho trascorso l’infanzia. Ogni martedì e ogni venerdì mio padre mi ordinava di andare a prendere o il baccalà o il coroniello. Nella caverna del baccalaiuolo la divina fragranza salina di quel nobile pesce allora mi disgustava come una delle più violente puzze che ci siano; e soltanto in seguito, divenuto maturo, ne avrei apprezzato il prezioso afrore. Molte volte mio padre, che era costretto al lavoro tutto il giorno, mi diceva di comprare non il baccalà ammollato e reso bianco dalla calce aggiunta dal baccalaiuolo, ma proprio l’animale secco oppure, come si usa dire nel popolino, una “scella” (un’ala).
A quei tempi quasi tutti lo comparavano secco. Se lo facevano con le proprie mani. Lo deponevano a bagno nelle bacinelle deposte sui balconi o sui terrazzi e lo lasciavano, cambiando di tanto in tanto l’acqua, a spugnare per due o tre giorni. Ne usciva un pesce fresco e così bianco come quello del baccalare, un po’ più scuro, ma più saporito. Sapere che a mezzogiorno c’era il baccalà fritto o in tortiera, o il mussillo con aglio, prezzemolo e limone, o lo stocco bollito con patate e pomodori, significava stabilire una grande attesa, un premio per le migliaia di napoletani che ne erano golosi e che lo consideravano uno dei cibi più prelibati della gastronomia locale.
Anche il baccalà, come la pizza e gli spaghetti, è diventato quasi esclusivamente napoletano per i modi di cuocerlo.
In quasi tutti gli altri paesi, per quel suo dubbio odore o cattivo odore, è tenuto in non cale e, salvo che a Vicenza, il baccalà non esiste nemmeno nella lista dei cibi. Bisogna andare in Francia, in Spagna per vederlo consumato e premiato. Pochissimi sanno che il baccalà fu tra i primi cibi che arricchirono le mense dei principi e dei re e poi, via via, accrebbero la parca dieta dei poveri. Il nome di stocco deriva da “stok”, bastone; una sorta di bastone cui appendevano i merluzzi i nordici, lasciandoli essiccare. E poiché fu provato che poteva resistere molto tempo senza marcire, a bordo delle carrette che allora solcavano tutti i paesi d’Europa, il baccalà arrivò dappertutto, cominciando a essere consumato come uno dei più igienici e sostanziosi cibi.
E proprio perché col tempo divenne il mangiare dei poveri, dacché aveva onorato le mense dei papi, il baccalà finì per diventare piatto di cantine e trattorie. Oggi la sua importanza ricomincia a salire. Il baccalà è uno dei pochi pesci di cui si conosce la provenienza e il trattamento. In pratica, si tratta di un merluzzo magnificamente conservato e quando lo si mangia batte tutti i confronti. Napoletano il baccalà perché a Napoli, come si dice, ha trovato la sua morte. A Napoli vi hanno aggiunto il pomodoro e i capperi. A Napoli il mussillo viene mangiato con limone, prezzemolo e aglio come i più regali pesci freschi e di gran lignaggio.
Ora a chiederlo a un trattore significa fargli un’offesa ma, cercando, si trova e dopo ci si lecca i baffi.