Il paese pezzente detta legge a tavola

La Campania ha trasformato la povertà in genialità: il cibo napoletano è poverissimo ma allegro

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“A Napoli si mangia male”. È una battuta, una sentenza che ha fatto il giro d’Italia. Uno dei tanti luoghi comuni che dovremo impegnarci a sfatare. Si mangia male; e può essere anche vero; ma resta il fatto che di tutti i primati miseramente caduti, quello della nostra gastronomia rimane imbattibile e lungamente e invano imitato.

Non mi è mai capitato di scendere in un paese straniero e di trovare qualcosa che vagamente mi ricordasse l’Italia e le sue illustri cucine; la romana, la toscana o fiorentina, la veneta, la piemontese e la lombarda e, mi dispiace, essendo un sudista dichiarato, la siciliana o la pugliese. Già nell’attigua Francia, chiedere un piatto di agnolotti o di fusilli, una fonduta o una tiella barese, tortellini, tagliatelle alla bolognese o risotti, è tempo sprecato. Non li hanno mai sentiti nominare; e il nostro emigrante, scalzo o vestito, deve rinunciare e, per collegarsi gastronomicamente alla Madrepatria, è costretto a chiedere gli spaghetti o la pizza. Le cose stanno proprio così.

Il paese più pezzente d’Italia, si fa per dire e per ridere, in cucina ha trasformato la povertà (l’onirismo mistico della fame di Pulcinella) in genialità. Non ha sbagliato un colpo, servendosi press’a poco, come i filosofi greci, degli elementi originari: farina, acqua e sale, alla portata di tutte le borse, particolare di gran fondamento. Con acqua, farina e sale inventa gli spaghetti, che si venderanno subito per strada (il cosiddetto: o uno e o doie; acquerelli e stampe ne testimoniano la gestualità) e con acqua e farina e sale e l’americana (sic) pomodoro inventa la pizza di cui, trasformata e a volte ridotta a una suola di scarpe, tutto il mondo abbonda, cibo dei giovani, a Firenze come a Roma, a New York come a Hong Kong, fino al disgusto.

È così vero questo che gl’italiani hanno finito per dimenticarsi di queste due invenzioni napoletane e, specie all’Estero, per identificarsi con esse. Aveva ragione Paolo Monelli quando scriveva che: “Il segno più evidente dell’unità d’Italia, prima assai che questa diventasse realtà politica, il fenomeno che fa veramente una sola nazione i discendenti dei latini dei falisci dei volsci degli umbri e dei sabini, degli etruschi, dei liguri e dei veneti, dei siculi e dei sardi, dei sanniti e dei lucani e degli irpini e dei bruziii, dei marsi e dei peligni, degli allobrogi, degli osci e dei messapii, dei normanni e dei greci dei longobardi e dei celti latinizzati non è la lingua, non sono i caratteri fisici e morali; è la cerimonia per la quale sul mezzodì di ogni giorno che Dio manda in terra, in tutte le cucine della penisola (e qui Monelli cita a lungo tutte le classi sociali e tutti gli ambienti deputati, dai ristoranti di lusso alle cantine) si cala la pasta”.

Poverissimo cibo napoletano, ma allegro e, direi, lieto, mobile, sfuggente. Osservate come uno spaghetto rassomiglia allo scugnizzo che cammina o che si butta a mare e la sua preparazione – degli spaghetti – al carattere estemporaneo e rampante della nostra gente. La pizza addirittura copre la nostra antropologia e la nostra visionarietà: i tocchetti di mozzarella che vi sono cosparsi sopra ricordano le vele, i pomodori le barche, il basilico le alghe, il cornicione il cerchio perfetto del golfo da Punta Campanella a Capo Miseno. O mi sbaglio?

Cibo da pronto soccorso dello stomaco – un SOS – come ebbi a scrivere tanti anni orsono; giacché sull’altro versante, su quello della festa e del giorno del Signore, che per noi non ebrei è la domenica, e dell’eredità spagnolesca e barocca si raggiungono vertici da cattedrale in crinolina. Basta ricordare il peperone imbottito, la parmigiana di melenzane e il buio e fangoso ragu (sic). Non c’è spazio per citare la mozzarella in carrozza – ma che nome sfizioso – il calzone con la ricotta, i vermicelli con vongole o aglio e olio, il trionfale sartù di riso (noi che l’odiamo) o la remota minestra maritata o pignato (sic) grasso, eccetera.

Il discorso è lunghissimo e assai più serio di quanto si presume. Limitiamoci alla zuppa di pesce, la più completa che esista – un vero e proprio compendio d’ittiologia – e non a caso, amici, assolutamente non a caso. Siamo stati noi o no a scrivere l’unico poema epico sui pesci: “Il Guarracino che jeva per mare…” ai tempi di quel famoso medico e avventuriero romano, Pietro Della Valle che, giunto in Napoli da Costantinopoli, che sembra puzzasse, si lamentava di non potersi fare il pediluvio a Mergoglino (sic) perché una moltitudine di pesci, deliziosi a vedere e a mangiare, gli mordeva i polpacci?

 

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