Il primato nasce dalla fame

Per Rea, sudista dichiarato, la tavola è l'occasione per sfatare diversi stereotipi

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Oggi come ieri, sono molti – forse ancora troppi – i luoghi comuni da sfatare su Napoli. Lo sapeva bene Domenico Rea e non perdeva occasione – quale che fosse lo stereotipo colorato da contestare o la ‘cartolina’ da strappare – per chiarire, senza mezzi termini, la sua posizione.

Succede anche col cibo: affermare, infatti, che “a Napoli si mangia male” rappresenta una pesante offesa significando, per Don Mimì, la negazione di un primato tutto napoletano, “imbattibile e lungamente e invano imitato”. Un primato che è motivo di vanto per il “sudista dichiarato” Rea, soprattutto se il ‘mangiare’ partenopeo viene messo a confronto con le altre illustri cucine nazionali – la toscana o fiorentina, la veneta, la piemontese, la lombarda, la siciliana e la pugliese – così come pure con la blasonata gastronomia francese o con quella da “fast food” statunitense.

Tocca, invece, al “paese più pezzente” d’Italia (cioè Napoli e, per estensione, l’intera regione campana) aver trasformato la povertà di un territorio e della sua gente – ottimamente rappresentata dall’“onirismo mistico della fame” del personaggio di Pulcinella – in virtù di un’assoluta genialità manifestata in cucina.

Basterebbe citare le due più celebri creazioni gastronomiche napoletane: gli spaghetti, simili agli scugnizzi, e la pizza famosa in tutto il mondo. A queste due celebrità Rea aggiunge le sue tante, originalissime, ‘variazioni’ sul tema: il peperone imbottito; la parmigiana di melenzane; il “buio e fangoso” ragù; la mozzarella in carrozza; il calzone con la ricotta; i vermicelli con vongole o aglio e olio; il “trionfale” sartù di riso; la minestra maritata o “pignato grasso”. E non possono, infine, mancare i menù di pesce – soprattutto la zuppa, “un vero e proprio compendio di ittologia” – non dimenticando che sono stati gli stessi napoletani, per primi, a scrivere l’unico poema epico sui pesci: “Il Guarracino che jeva per mare…”.

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