Eugenio Scalfari se n’è andato, quasi centenario, il 14 luglio scorso. È un anno che non c’è più e la sua morte – evento temuto come ingiusta mannaia, perché colpisce (ma guarda un po’!) anche l’onnipotente carisma di chi visse una glorificata grandeur – attivò, già qualche minuto dopo il trapasso, la prevedibile inondazione celebrativa da parte di quell’intellighentia radical-borghese, di cui l’illustre scomparso era esponente molto in vista. Un peccato originale inemendabile per una sinistra che spesso non riesce a mantenere un distaccato spirito critico. Se lo avesse mantenuto, in occasione della scomparsa dell’illustre giornalista, sarebbero emersi i chiaroscuri di una personalità complessa e contraddittoria, che ebbe certamente meriti notevoli nell’individuazione di nuovi corsi del giornalismo. Invece, per l’illuministica e impavida genìa progressista e salottiera, la superiorità etica e culturale deve mostrarsi integra come un cristallo purissimo e il chiaroscuro, di conseguenza, va cancellato con la cesoia del silenzio. Tutti i tg del mainstream, sovrapponendosi e omologandosi, ricordarono per giorni l’attività giornalistica di Eugenio Scalfari soltanto a partire dal 1950, quando – già da dipendente della Banca Nazionale del Lavoro – cominciò a collaborare a Il Mondo e all’Europeo, intrattenendo buoni rapporti con i rispettivi direttori, due pilastri del giornalismo contemporaneo, Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti.
Si dà il caso che prima di diventare bancario e di inoltrarsi nel tumultuoso e dorato giornalismo economico di conio liberal-riformista, forte di un rilevante biglietto di presentazione (Scalfari nel 1950 sposò Simonetta, la diletta figlia di Giulio De Benedetti, storico direttore della Stampa e altra colonna dell’informazione italiana), il giovane e precoce cronista aveva già debuttato nella testata Roma fascista, organo ufficiale del Guf (Gruppo Universitario Fascista). Era giovanissimo, allora, e spendeva convinto il suo tempo nelle tipografie di regime più che nell’infruttuoso e distratto studio di Giurisprudenza. Di questa testata, Scalfari diventerà caporedattore all’età di soli 18 anni, ma la sua attività spaziava su altri fogli di stretta osservanza mussoliniana. Grande spazio fu dato ai suoi scritti su Nuovo Occidente, giornale diretto da Giuseppe Attilio Fanelli, fascista cattolico e prim’ancora squadrista di energica lena.
I rinsavimenti, certo, sono umani e possono essere sinceri oltre che opportunisti, ma a sinistra si preferisce cancellarli insieme con le scelte operate. E così la intensa vita professionale di Scalfari viene postdatata agli anni ‘50, a partire dalla fondazione del Partito Radicale (1955) e dalla coeva irruzione nelle edicole del settimanale l’Espresso, di cui il bravo e astuto giornalista cumulò le cariche di direttore responsabile e direttore amministrativo, secondo un metodo che i tempi e le circostanze forse imponevano, ma che è fuori da ogni insopprimibile esigenza di netta separazione tra proprietà e redazione per motivi fin troppo evidenti. Etica a parte, i numeri gli diedero ragione e la testata, in pochissimi anni, superò il milione di copie vendute, grazie a un aggressivo giornalismo di inchiesta, talvolta smentito dai fatti e dagli esiti giudiziari, ma certamente nuovo, in un panorama piatto che allineava, in quegli anni, le tesi informative alla vulgata del potere politico. Questo è un merito indiscutibile, che portò a espellere dalla cassetta degli attrezzi cronistici il criterio dell’obiettività e a sostituirlo con l’altro indefinibile ma promettente della onestà professionale. Una scelta coraggiosa, che liberava il racconto della realtà dalle datate incrostazioni pregiudiziali e, a un tempo, arricchiva la cronaca delle possibili interpretazioni di cui era rimasta orfana. Acquistò così respiro la prospetticità delle notizie e l’opinione pubblica si sentì meno estranea, anzi in alcuni momenti avvertì il supporto delle penne e delle idee progressiste, di fronte alla chiusura costante operata dal clericalismo e dall’eccessivo moderatismo di marca democristiana.
Scalfari, che aveva fiuto, coltivava da anni l’idea del quotidiano e, abile qual era, chiese a Indro Montanelli di pensarlo insieme. Due papi a dir messa sono troppi. Montanelli fiutò il rischio dell’accoppiata opponendo un secco no. Il rifiuto non bloccò il progetto e nel 1976 nacque la Repubblica con il sostegno finanziario del Gruppo l’Espresso e della Mondadori. Fu un’affermazione irresistibile che, ancora una volta, premiò l’intuito oltre che l’idea del giornalista austero e con la barba. Scalfari consolida, a quel punto, la sua presenza societaria, e lo fa nel momento in cui si registra l’ingresso nella compagine di Carlo De Benedetti. Berlusconi non sta a guardare e tenta di mettere becco in quella orgogliosa leadership, scalando il titolo della Mondadori, con una corsa sfrenata al controllo che fu condotta, negli anni successivi, con metodi speculativi e la corruzione di un giudice. Il “lodo Mondadori” salvò però il quotidiano dalla morsa del Cavaliere. Fu così sventato il disegno di appropriazione, attribuito alla volontà di Giulio Andreotti.
La Repubblica eredita dall’Espresso la grinta e la visione del giornalismo di inchiesta, che in molte circostanze ha ceduto il passo ad una pregiudizievole lettura (politica) della realtà, fino a legarsi addosso, come l’edera, l’etichetta del giornale partito. La radicalità di quella scelta, che vedeva il punto di vista prevalere sul racconto dell’attualità, non ha retto all’urto dei tempi e al declino inarrestabile dell’informazione tradizionale, anche a causa della complessità della realtà italiana e del tramonto della centralità dei partiti, tant’è che il quotidiano romano è appassito come e più degli altri, con tirature incomparabili con quelle degli anni del boom.
Vent’anni è durata la direzione di Eugenio Scalfari, nel corso dei quali le due battaglie più decise sono state quelle combattute contro il Partito socialista di Craxi e contro Silvio Berlusconi. Eppure il Psi (segreteria Mancini), facendo eleggerli alla Camera per dotarli di immunità parlamentare, evitò a Eugenio Scalfari e a Lino Iannuzzi il carcere che incombeva sulle loro teste, in seguito alla condanna penale per le rivelazioni relative al Piano Solo “ordito” dal generale De Lorenzo. Scalfari divenne così un uomo “immemore” e ingrato per i socialisti. Ma non è questo l’unico chiaroscuro della sua vita: lo incontreremo sulla sponda sbagliata in altre circostanze, quando sottoscrisse l’infame lettera contro il commissario Calabresi (poi, però, si pentì e chiese scusa) o quando, per contrastare le manovre economico-finanziarie di Cefis, sostenne i suoi avversari, tra i quali Michele Sindona e i suoi amici mafiosi.
L’uscita dalla proprietà di Repubblica consolidò il suo potere economico. Aveva avuto una grande idea, ma passò all’incasso e ne ricavò enormi benefici. Divenne così uomo tra i più ricchi dell’editoria italiana e continuò a militare, anche da pensionato, nel giornalismo quotidiano con interminabili (e talvolta astrusi) editoriali domenicali, nei quali da quel vecchio saggio che sentiva di essere, preconizzava alleanze impossibili (anche tra Salvini e Renzi), delineava scenari inverosimili e filosofeggiava con argomentazioni talvolta incongrue e fragilissime sui massimi sistemi.
E qui, complice la notte della vecchiaia che arriva per tutti, la lettura di questa vita si complica. Negli ultimi anni, Scalfari ha scritto di tutto, calcando ogni area umanistica: dalla filosofia alla teologia, alla narrativa, alla poesia, alla psicoanalisi, ma senza essere filosofo, teologo, scrittore, poeta o psicoanalista. Il suo giornalismo generalista, anche se di livello alto per i ruoli rivestiti, si è combinato con quadranti ideali e di ricerca lontanissimi da target degni di nota. Ma nessuno glielo ha mai detto o scritto per quella complicità ideologica che inquina e mente spudoratamente. Non c’è suo libro, nonostante la grancassa promozionale, che abbia venduto molte copie né che abbia lasciato tracce rilevanti. In genere, fogli al vento.
L’onnipotenza gli ha giocato brutti scherzi: tre sue interviste a Papa Francesco, nel 2013, nel 2014 e nel 2018, hanno fatto registrare la sonora smentita del Pontefice. Nelle prime due sarebbero state riportate espressioni non pronunciate dal vicario di Dio, la terza non sarebbe mai avvenuta. Per le prime due, Scalfari disse di aver virgolettato parole “come se fossero uscite dalla bocca del Papa”. Il problema è che non aveva preso un solo rigo di appunti. Un brutto smacco per uno dei presunti padri del giornalismo d’inchiesta, ricevuto in Vaticano nonostante le sue insistite e confuse proclamazioni di ateismo.