I pittori antesignani della questione meridionale

La rara eloquenza di un gruppo di agguerriti artisti del secolo d'oro che mostra le antiche origini dei problemi del Mezzogiorno

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A proposito della questione meridionale, molti, anche tra gli storici, credono che sia sorta dopo l’Unità d’Italia, ma il problema è di più antica origine come ci dimostrano, con la rara eloquenza del loro pennello, un gruppo di agguerriti pittori del secolo d’oro.

Nel solco del naturalismo di lontana matrice caravaggesca e sempre nell’orbita del Ribera sanguigno e dal tremendo impasto è da collocare, tra la fine del secondo decennio e l’inizio del successivo, la comparsa sulla scena artistica napoletana di un pittore dal fascino singolare e dalla tematica originalissima, che gli studiosi collocano sotto il nome convenzionale di Maestro degli Annunci ai pastori, dal soggetto di suoi numerosi dipinti conservati in vari musei e raccolte private da Capodimonte a Birmingham, da Brooklyn a Monaco di Baviera. Il Maestro degli Annunci ai pastori va collocato, idealmente, in quel gruppo di artisti di cui in seguito faranno parte Domenico Gargiulo, Aniello Falcone, Francesco Fracanzano e soprattutto Francesco Guarino, i quali saranno impegnati in un’accorata denuncia delle misere condizioni della plebe, dei contadini e delle classi popolari subalterne. Una sorta di introspezione sociologica ante litteram della questione meridionale indagata nei volti smarriti dei pastori, dalla faccia annerita dal sole e dal vento, dei cafoni sperduti negli sterminati latifondi come servi della gleba; immagine di un mondo contadino e pastorale arcaico ma innocente e la cui speranza è legata ad un riscatto sociale e materiale, che solo dal cielo può venire, come simbolicamente è rappresentato dall’Annuncio ai pastori, il cui sostrato e l’iconografia religiosa sono solo un pretesto di cui il pittore si serve per lanciare il suo messaggio laico di fratellanza ed uguaglianza.

Il paesaggio meridionale diventò il soggetto prediletto del “viaggio pittoresco”, nuovo genere letterario-odeporico, dove il testo scritto veniva ridotto alla funzione di didascalia, ideato, cioè per illustrare le vedute dei punti, paesaggisticamente più interessanti, incontrati lungo l’itinerario, ovviamente secondo i gusti estetici vigenti al momento.

Si trattava di veri e propri “testimoni privilegiati” che si sommavano alle “guide” nel selezionare i luoghi meritevoli di “essere visti”, rafforzando, in tal modo, gli atteggiamenti imitativi dei cosiddetti viaggiatori, spingendoli ad accettare le mete proposte, oppure inducendoli ad uscire autonomamente dalla prospettiva.

Proprio in questo contesto si può collocare l’atteggiamento anti-montanaro di Chateaubriand, il quale, nel suo personale resoconto di viaggio, si mostrò ansioso di rifiutare proprio tutti i topoi legati a quella che doveva ormai sembrargli “una diffusa percezione estetica della montagna”. In seguito, spinto dal desiderio di dimostrare l’originalità del proprio saper vedere, egli giunse a definire come “una cava di gesso” la Mer de Glace e come stamberghe piene di letame “le ridenti baite, che, invece, Rousseau aveva visto abitate da felici montanari custodi della civiltà alpestre” (Pesci, 2000).

La nascente moda della montagna, tuttavia, non si limitò a Chateaubriand; al coro degli estimatori del “sublime” e del “pittoresco” si aggiunsero rapidamente anche autori romantici, come Byron e Shelley, che contribuirono a dissipare l’alone di malinconia, che persisteva intorno all’immagine della montagna (Nicolson, 1959). Nel corso dell’Ottocento, l’affermazione dell’alpinismo, legato al desiderio di “salire per salire”, come scrisse Micheler (1868), non più per i valichi, ma sulle cime (Coolidge, 1904), segnò inesorabilmente la scoperta “estetica della montagna anche a livello più “popolare”.

William Mallord Turner, il paesaggista inglese, ebbe modo di dire: “Odio Napoleone perché le sue guerre mi impediscono di dipingere le Alpi”. Lo storico svizzero Jean Francois Bergier scrisse invece: “Le montagne, i laghi e le foreste delle Alpi hanno potuto nei secoli passati intrappolare qualcuno o riparare altri. Sono nondimeno sempre stati abbastanza permeabili: non hanno impedito la circolazione di beni o di uomini”

La frequentazione della montagna diventava così una consuetudine turistica, dapprima per pochi eletti che volevano sfidarla e ne correvano i rischi (a loro volta portando l’alpinismo a livello di informazione di massa, come avvenne nel 1865, con la tragedia della spedizione al Cervino che precipitò dopo aver raggiunto la vetta) (Pesci, 2000), quindi, per tutti coloro che si avvicinavano alla montagna per sfruttarne le virtù salutistiche; per fare una villeggiatura mondana; per praticare gli sport prettamente invernali. È da sottolineare che, quando avvenne la scoperta romantica della montagna, gli sport invernali non erano ancora diffusi, e, dunque, le visite delle località montane erano limitate alla stagione estiva e le stazioni di media altura erano le più favorite. La meta turistica e sportiva dell’alta montagna, prevalentemente nel periodo invernale, divenne una caratteristica del secondo dopoguerra, che portò a selezionare solo i siti ben innevati, giungendo a progettare ex-novo gigantesche “stazioni integrate” ad alta quota, come Avoriaz, Portillo (in Cile), Lake Placid o Sapporo (Ferrata, 1999). Oggi, il turismo di massa nell’alta montagna da un lato, e l’affermazione di pratiche sportive sempre più tecniche e definite dall’altro, sembrano essere l’espressione di una visione marcatamente “atletica” della montagna. Si diffondono, anche, altre scelte territoriali legate ad una dimensione estetica “bucolica”. In queste scelte si inserisce la riscoperta “turistica” della montagna, in cui propriamente si colloca “il nostro progetto”. Si ritiene utile che vadano promosse, per l’avvenire, azioni virtuose da parte degli Enti locali per preservare e valorizzare, nell’arco dell’intero anno, un patrimonio ricco e variegato che ben si combina con l’economia e con la qualità della vita.

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