Dell’esame di Stato non resta né l’esame né lo Stato

Si è diffusa l’idea che lo studio sia solo un superficiale colloquiare, senza mai approfondire, facendo il minimo per restare a galla, senza chiedersi il perché delle cose

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Non è vero che i fiori per la maturità non si siano mai regalati. Si omaggiavano, particolarmente le studentesse – quando 60 era il massimo, non il minimo – magari con un mazzolino con tante roselline quanto era il voto. Ma, per conoscere quel voto, bisognava aspettare.

Ecco, oggi manca l’attesa. Che è stata sostituita dalla pretesa. Pretesa un po’ determinata dal fatto che gli studenti, in nome di quella osannata trasparenza, sanno già il voto di partenza, prima dell’orale; un po’ dal fatto che dalla scuola, per attuale consuetudine, si ha sempre qualcosa da pretendere. Pretendono i ragazzi, pretendono i genitori. E se le pretese non sono soddisfatte, ci si appella al Tar.

In ogni caso, è smorzato l’effetto sorpresa, lo stupore. Ed è smorzata anche l’adrenalina di vedere l’esame come va, che domande ti fanno. Anche perché domande non se ne fanno. “Solo un colloquio – ha detto Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, invitando i candidati a stare sereni – Niente verifiche disciplinari”.

Ma allora perché continuare a chiamarlo “Esame di Stato”, se non si esamina? Ah, ma non è necessario interrogare, perché i contenuti sono stati verificati in precedenza! Certamente, precedenza che, nel farraginoso sistema dei crediti, diventa pregiudizio, marchio da cui non ci si libera, dal terzo anno in poi e che ingabbia gli studenti in un percorso dove, se ti va bene, sei un predestinato che non deve deludere mai le aspettative, altrimenti sei uno che, pur migliorando di molto, mostrando una crescita esponenziale per conoscenze e competenze e serietà, insomma uno capace di uno scatto di reni, non potrà mai aspirare al massimo.

Spiego a quelli che si sono diplomati anni fa e che si stupiscono passando, in questi giorni, davanti ai licei nel vedere di tanto in tanto far capolino un ragazzo o una ragazza con una corona d’alloro sulla testa, fiori e bottiglia per brindare, e genitori ed amici pronti ad immortalare il momento, da postare assolutamente sui social.

Cari miei, diplomati che portavate solo due materie, ma tutto il programma, interrogati da docenti mai visti prima d’allora, voi non potevate pensare ai fiori il giorno dell’orale, perché voi l’esame lo sostenevate davvero.

Gli studenti di oggi, invece, iniziano a fare l’esame di Stato già dal terzo anno. Poveri! Gli abbiamo portato via la loro occasione, quel momento sacro e terribile, che segnava il passaggio dalla scuola all’università o al mondo del lavoro, e che probabilmente sarebbe tornato in incubi notturni anche vent’anni dopo. Perché tutto deve essere più soft, graduale, senza intoppi, senza traumi. Ma, ahimè, anche senza crescita.

Ma noi i giovani vogliamo proteggerli! è giusto che non si carichino d’ansia, ma che si rispetti tutto il percorso! è questa la frase ricorrente sulla bocca dei docenti commissari e dei presidenti di commissione: rispettare tutto il percorso! Ma di quale percorso stiamo parlando, se il finale è pregiudicato dal primo passo?

Vogliamo considerare o no che porre paraurti a destra e a manca falsifica la realtà e rende i nostri ragazzi deboli e negligenti?

Vogliamo considerare che questo fantomatico percorso riguarda ragazzi tra i 15 e i 18 anni? E che a 15 anni sarà lecito sbagliare, commettere un errore, una leggerezza, che il docente dovrà pur indicare in pagella a fine anno? E che da quest’errore, che – facciamo il caso – sia un debito in matematica o in inglese, si può pure trarre un insegnamento, per cui si arriva all’esame di Stato con un’altra maturità e preparazione?

Vogliamo considerare che il diciottenne che sostiene l’esame può non avere più nulla a che vedere con quel quindicenne che preferiva stare ore ed ore a giocare alla play invece di fare le equazioni di secondo grado?

No, perché rispettare il percorso di crescita significa non poterlo rispettare affatto!

Più che parlare di percorso formativo si dovrebbe parlare allora di capacità di veggenza dei docenti che guardano lo studente della classe terza e lo proiettano a tre anni dopo.

Ma, così facendo, i quadri si alterano: in una scuola che non boccia quasi più, i docenti che guardano avanti fanno diventare 8 il 7 del terzo anno, quel tanto che basta per accedere alla fascia superiore dei crediti e non precludere la possibilità di aspirare ad un voto più alto.

Ma il ragazzo che ha preso 8 in pagella, e con lui la sua famiglia, si convince davvero di aver studiato e reso da 8. E questo è un inganno enorme, che la scuola inclusiva e comprensiva non può perdonarsi. Una presa in giro per ragazzi che spesso in famiglia non hanno un punto di riferimento certo e severo e che dovrebbero poterlo trovare nella scuola pubblica. Alterando in questo modo la realtà, si autorizza lo studente a pretendere sempre di più e a dare sempre meno “perché tanto se non bocciano Tizio e Caio dovrà avere la lode, Sempronio potrà sempre uscire con un voto più alto di quanto effettivamente meriti”.

Ma non tutti i docenti giocano a voler essere veggenti. Ci sono anche quelli che fanno la media esatta, sordi a qualsiasi proposta di alterazione del voto, che non si piegano al sistema, per i quali 7 è 7 e non si discute. Sono i più giusti certamente. Salvo poi rammaricarsi che i propri alunni, una volta pubblicati gli esiti, rispetto a quelli di altre classi non siano valorizzati abbastanza.

Ma potrebbe esserci anche un ulteriore colpo di scena: lo studente valutato sempre con una media appena sufficiente che viene improvvisamente super-lodato dai commissari esterni!

Eh già, perché i commissari esterni tanto estranei spesso non sono. Anzi! è così corto il raggio entro cui si pesca per la formazione delle commissioni, che l’Esame di Stato potrebbe tranquillamente essere denominato Esame del Comune o tutt’al più della Provincia. Quanto è facile che quel prof o quella prof nominata sia la cugina dell’amico del vicino di ombrellone ed una segnalazione non costa nulla! Anzi, cementifica le usanze all’italiana.

C’è da dire, allora, che l’esame non è stato tolto solo ai ragazzi, ma anche ai docenti, che perdono l’occasione di un confronto vero ed incondizionato con un’altra realtà, lontana. Una volta ci si spostava davvero su tutto il territorio nazionale. Oggi, invece, si resta fermi. Imprigionati nelle griglie. In una verità che si cristallizza senza dare impulso alla svolta. All’esperienza di vita. Alla vita stessa.

Una verità cristallizzata anzitempo va in scena nelle scuola tutti gli anni, con l’illusione che i nostri studenti sappiano conferire su tutte le discipline in abili collegamenti. E ce ne sono davvero. Ma la maggioranza dei candidati, un millimetro fuori dal percorso preparato, è pronta a dire le più divertenti castronerie.

Ma intanto a tutti diamo l’idea che lo studio sia questo superficiale colloquiare, senza mai approfondire, facendo il minimo per restare a galla, senza chiedersi il perché delle cose. E li mandiamo all’università e ad affrontare la vita, con la convinzione che basti attendere un giorno sul calendario, per potersi incoronare “o cesare o poeta” e brindare, qualsiasi sia stato il percorso.

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