L’arte e il genio enciclopedico di un Manganelli davvero universale

Con "Emigrazioni oniriche" l'autore conferma di essere enciclopedico, smisurato, un manierista dalla scrittura sagace e pletorica. Un libro da leggere e custodire nella propria biblioteca per consultarlo quando per ogni pretesto si percepisca una necessità di comprendere l’arte con una libertà autentica, colta e superlativa

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Potremmo dire, con parole lievemente diverse: la fantasia artistica – letteratura, musica, arti figurative eccetera – è essenzialmente traumatica; è esperienza per sua natura selvatica, segregata, discontinua alle più agevoli consuetudini collettive; non è deducibile da precedenti esperienze. La condizione dell’artista è dunque naturalmente anarchica; rilutta alla storia, è asociale, catastrofica, narcisistica; ed anche il narcisismo presuppone una minuscola apocalisse, un quieto delirio che getta un distratto dubbio sull’esistenza del mondo. Responsabile solo di fronte al proprio lavoro, del quale egli intende assai oscuramente la destinazione e il senso, l’artista ha molti caratteri dell’asociale parassita; gli oggetti che produce sono ambigui, forse loschi; questo “raro e santo e dilettevole” teppista mal si adatta ad una società saggiamente ordinata, retta da indubitabili imperativi morali, poliziesca e fraterna. Giorgio Manganelli, Emigrazioni Oniriche, Adelphi, pagg. 348.

Si tratta di scritti “sulle arti”, – sopra è riportato un estratto di una riflessione al libro di Edgar Wind, Arte e anarchia, pubblicato sempre da Adelphi nel 1968 – di recensioni di libri e di mostre e altro affine a cura di Andrea Cortellessa che coprono un periodo che va dal 1965 al 1990. Un libro, come i precedenti due pubblicati da Adelphi, che sono Concupiscenza libraria (2020) e Altre concupiscenze (2022), assolutamente da leggere e da tenere come una reliquia nella propria biblioteca. Non per tenerlo da parte, ovvio, e custodire, ma da rileggere e da consultare quando per ogni pretesto si percepisca una necessità di comprendere l’arte con una libertà autentica, colta e superlativa; e con un’ampiezza di accesso e attraversamento tale che lascia attoniti chiunque abbia desiderio di comprendere l’arte o di realizzare una credibile ambizione artistica. Manganelli, in breve, non smette mai di essere un genio. Le sue letture sono semplici e le sue riflessioni sono esatte e ideologicamente carenti, ma sempre pregnanti di spirito e di adiacenze letterarie.

Stupisce l’ironia e la capacità di offrire al lettore un testo essenziale pur tuttavia sempre in bilico tra rigore e impostura, disciplina e scelleratezza, sapienza e pietra artificiosa, sintesi di vaniloqui e didascalie. A proposito di Van Gogh scrive: “Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità; e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo”. È solo un esempio tra i tanti. Di D’Annunzio, a proposito di una mostra del suo guardaroba, chiosa: “D’Annunzio abbisognava di stiratrici provette e camicie e colletti immacolati; ma niente è più adescante, credo, dello schieramento aereo dei cappelli, quei berretti, bombette, cilindri, cuffie, pagliette, posati a mezz’aria, omaggio e gioco, ornamento e decorazione, fittizio, infrangibile elmo della testa fatta di nulla”. Tuttavia, se della letteratura poteva dirsi esperto in pittura, si celebrava di non essere di professione critico, “ma di andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni e dir sciocchezze”. Così, a proposito della mostra di Giacomo Ceruti, “Confesso che nel Pitocchetto niente mi interessa di meno del suo supposto amore per i poveri. Che certamente amore era, ma non, a mio avviso, propriamente cristiano, ma del tutto pittorico: come Dostoevskij aveva bisogno di tormentati dementi, e a un certo momento a Flaubert occorse un’adultera, sebbene non si occupassero tecnicamente di psichiatria o d’indulgenze sessuali. Ai miei occhi poveri, i pitocchi del Ceruti sono un registro retorico, una scelta di linguaggio, e quella scelta, se devo essere chiaro, nasce non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica”.

Si nota come le letture di Manganelli mentre esulano dalla critica dell’arte, ne accendono sviluppi o scenari inaspettati, specialmente in chi dell’arte pensa di conoscerne i segreti, o le occulte maestrie nelle fogge di forme imperiture, fosche, o vagamente maniache. Manganelli discetta su Caravaggio, gaglioffo di pelo buio, sull’enorme Michelangelo, sul soave Raffaello o sui soffitti del mondo di Tiepolo, sulle fontane di Roma, sulle dispute tra Donatello e Brunelleschi, sui manieristi, sul Seicento, sua straordinaria passione, ma divoriamo anche le finezze dei personaggi, leggiamo, a proposito, una lettura straordinaria sia storica che formale della Maddalena di Donatello , ci sono poi pagine bellissime sulla Santa Teresa del Bernini fino alle serpi di Medusa, a “Un tappeto di nulla”, splendida recensione di una mostra Occident-Orient tenuta a Strasburgo che poneva come contrapposti pittori astratti o al limite del figurativo – da Matisse a Klee a Hartung – ad esempi di arte islamica quali tappeti, costumi, elementi architettonici e piastrelle. In primo luogo, scrive Manganelli, nel modo più semplice e diretto, l’oriente è una scrittura: l’enigmatico labirinto arabo, flessibile e insinuante, una favola scritta; vi è qualcosa di fondamentalmente diverso tra la grafia dei nostri libri, che presenta lettere solitarie, tutte accerchiate da una breve e deserta aureola di bianco e la grafia araba… Mi fermo qui, crea imbarazzo continuare o scegliere tante altre note di scrittura tutte fulminanti e di una perspicacia sorprendente ed efficace. Ci sarebbe da trascriverle tutte con la pazienza degli amanuensi.

Manganelli è enciclopedico, smisurato, un manierista dalla scrittura sagace e pletorica, sovrabbondante senza essere mai carico, un maestro a cui basta dare una piccola traccia e lui la trasforma in una mappa, in un mondo. Manganelli è un universo. Non disdegna l’arte contemporanea né i suoi amici Scialoja o Melotti. C’è Lucio Fontana, Gastone Novelli, Achille Perilli e tanti altri. E a sorpresa troviamo Gino De Dominicis. Insomma ce n’è per tutti, basta solo sfogliare queste “Emigrazioni Oniriche” che diversamente da un museo vogliono solo introdurre, essere solo letteratura e nient’altro. Probabilmente, una letteratura generata dall’arte. Tuttavia pur sempre una letteratura elusiva, misteriosa e schiva. Il museo, scrive Manganelli, esige di essere solitario, esemplare, irripetibile. È fatto di oggetti unici. Ogni esempio è una preda, comprata, catturata, deportata, scovata, scavata, rubata, corrotta, scambiata, trafugata. Un museo presuppone una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e concluso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano. Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode. Raccoglie quelle cose ambigue che sono i capolavori; colleziona opere d’arte, in nome della bellezza; infine pretende di essere istruttivo. Un libro ricco e fastoso, questa raccolta di scrittura rara fatta di “lapislazzuli con intarsi in diaspro e calcedonio e con rifiniture in bronzo dorato”. Talento e competenza. Forse anche tanto dolore di un intellettuale che aveva fatto della sua vita, e forse della letteratura, una collaudata effrazione, una vigile irruenza, una cerimonia di tragica bellezza.

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