Testimoniare in teatro le tragedie della libertà

La memoria continua ad andare in scena per ricordare a tutti il valore della libertà. In vista della Giornata della Memoria, un vademecum da non dimenticare: da Paolini a Tabares, a Buren, a Conejero, a Fernández, a Mayorga. I loro testi evidenziano in maniera forte una certa ‘continuità’ o ‘ripetitività’ nel tempo, fino ai giorni nostri, un appello a non dimenticare e a rinvangare nel passato per far emergere storie e verità

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Quando parliamo di ‘letteratura testimoniale’ – e avvicinandosi la data del 27 gennaio, giorno della Memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto, è opportuno più che mai parlarne – in genere ci riferiamo a testi narrativi autobiografici (o scritti da chi ha raccolto storie e ricordi altrui) di sopravvissuti a catastrofi, genocidi, guerre, dittature… Pensiamo sempre a testi narrativi, ma non mancano testi in poesia o, perché no?, destinati alla rappresentazione teatrale. Pensiamo in Italia a Marco Paolini, al suo  racconto del Vajont che vinse nel 1995 il Premio Speciale Ubu per il Teatro Politico, nel 1996 il Premio Idi per la migliore novità italiana e nel 1997 l’Oscar della televisione come miglior programma dell’anno per la trasmissione televisiva sulla tragedia del Vajont, trasmessa da Rai 2 in diretta dalla diga del Vajont il 9 ottobre 1997, anniversario del disastro, e a Ascanio Celestini, che in una intervista di Claudia Bonadonna ci porta subito in medias res: “È che bisogna parlare delle cose che non esistono più, anche per capire che non è del tutto vero che non esistono più. E proprio perché io faccio un lavoro sull’oralità e sulla memoria che posso parlare di una storia come quella della Seconda Guerra mondiale o della Fabbrica nel momento in cui si percepisce che, in qualche maniera, questa storia è finita. Il racconto che faccio è un po’ come l’elogio funebre: è l’elogio di una persona che è scomparsa ma per la quale è ancora possibile rimettere insieme tutti i pezzi”.

Ed è esattamente quello che da qualche decennio sta occorrendo in Spagna – dilaniata dalla Guerra Civile dal 1936 al 1939 e poi dalla dittatura di Francisco Franco fino al 1975 – in cui sia la discussione sulla politica e la cultura della memoria che l’integrazione della memoria nella letteratura sono state assenti per molto tempo a causa della politica franchista e, negli anni della transizione governata da quella stessa monarchia che aveva favorito la dittatura, del patto del silenzio e della politica di riconciliazione. Poi, quasi improvvisamente, sul finire del XX secolo nel teatro il recupero del passato recente ha raggiunto un vero e proprio boom. Dal teatro dei testimoni oculari al teatro dei nipoti alla teatralizzazione di testi memorialistici dei sopravvissuti, negli ultimi tre decenni il teatro si è aperto alla sperimentazione su possibili forme in cui possono venire contestualizzate, ma anche attualizzate, le esperienze del passato recente. Plusvalore della ‘testimonianza teatrale’ sui temi che ci interessano è senz’altro, come ha scritto Alberto Conejero nel prologo a J’attendrai di José Ramón Fernández (Oédipus), il fatto che “il teatro sospende l’inesorabile storicità che separa una generazione da quelle precedenti, facendo in modo che convivano, sullo scenario e nella cavea (o la platea), i vivi e i morti; il teatro ci rende tutti contemporanei, sia che stiamo da questa o dall’altra parte del fiume”.

Tutto ciò si riverbera in Italia dove ben due progetti editoriali legati all’arte scenica – in cooperazione e mai in concorrenza, e anche questo è un dato da sottolineare – hanno dato molto spazio a questo ‘teatro della memoria’.

“Herencias”, nata presso l’Università Roma3 per iniziativa di Simone Trecca, pubblica, e spesso mette in scena, testi teatrali spagnoli e ispanoamericani legati al processo di ricostruzione “dei tratti distintivi, […] emersi e […] consolidati negli ultimi decenni di identità culturali e socio-politiche segnate da eventi tragici che continuano a minacciare di stravolgerne il profilo identitario. Sono lustri attraversati dall’incertezza e, allo stesso tempo, dalla necessità di recupero e appropriazione di un passato scomodo e traumatico da parte delle generazioni cosiddette post-testimoniali, per tessere una rete di racconti in grado di garantire una visione di futuro condiviso e, soprattutto, articolato e non monolitico”.

Diversi sono i testi già pubblicati, e non è il caso di farne uno scarno elenco, ma solo indicarne tratti salienti e ricorrenti che si ricollegano alla memoria dell’Olocausto…

Quartetto per la fine del tempo, di Antonio Tabares, a cura di Simone Trecca, si allontana dal contesto ispanico per istallarsi, nel gennaio 1941, nello Stalag VIII A, un campo di prigionia tedesco nei pressi di Görlitz, dove fu eseguito per la prima volta il Quatour pour la fin du temps di Olivier Messiaen, composto durante la reclusione. Partendo e ispirandosi alle testimonianze del compositore e degli altri musicisti, alternando e intrecciando le loro parole al proprio elaborato creativo, Tabares propone una pièce che all’orrore dell’universo concentrazionario contrappone un mondo di speranza alimentata dal potere magico della musica.

Anche 186 gradini, di Rubén Buren, a cura di Carlotta Paratore, si svolge in un campo nazista, Mauthausen 1945, ed è costruito su tre livelli fattuali assimilati nella necessità di costruire memoria: un gruppo di deportati repubblicani spagnoli è impegnato nelle prove di un’opera comica in versi da mettere in scena nel campo di concentramento; la presenza inevitabile dell’orrore rappresentato dai 186 gradini della famigerata “scala della morte” che conduceva alla cava di granito di Mauthausen; la storia di Francisco Boix, il fotografo catalano che riuscì a scattare e a salvare foto delle atrocità commesse nel lager, costruendo una insuperata testimonianza per la costruzione della Memoria, presentata poi al processo di Norimberga.

I giorni della neve, di Alberto Conejero, a cura di Francesca Leonetti, accoglie, reinterpreta e drammatizza il diario recentemente pubblicato di Josefina Manresa, vedova del grande poeta Miguel Hernández, morto a soli trentuno anni nelle carceri franchiste. Sopravvissuta alla morte, al dolore, alla povertà, e ancora soffocata in un lutto senza fine, Josefina, una sarta seduta nella penombra della sua stanza dove cuce un vestito azzurro mare che una donna misteriosa le ha commissionato, offre un’intensa testimonianza in cui la memoria strettamente individuale si amplia per alimentare una memoria collettiva fortemente amputata dal silenzio imposto.

L’architetto e l’orologiaio, di Jerónimo López Mozo, a cura di Francesca Leonetti, pone un problema di fondo sul conflitto storia / memoria: è possibile costruire il futuro cancellando le tracce di un passato ingombrante e privando la collettività della sua memoria?
Il vecchio orologiaio che si occupa della manutenzione dell’orologio dell’edificio della Real Casa de Correos di Puerta del Sol, sede durante il franchismo della Dirección General de Seguridad, luogo di terrore e repressione durante la dittatura, viene emarginato e ‘cancellato’ dall’arrivo di un architetto incaricato dal Governo di rimodernare il monumento: un confronto che travalica la contingenza dell’orologio per collegarsi al dibattito accesissimo sulla Ley de la Memoria Histórica, introdotta solo nel 2007.

Sulla stessa linea si muove “Corponovecento”, collana di teatro contemporaneo diretta da Pasquale de Cristofaro e Alfonso Amendola, pubblicata in successione da Plectica, Oèdipus, Francesco D’Amato.

La pietra oscura di Alberto Conejero, a cura di Simone Trecca, è, come I giorni della neve, un omaggio alla poesia stroncata dagli orrori della guerra e della successiva dittatura: è il dialogo nel chiuso di una cella tra Rafael, un prigioniero in attesa di fucilazione, e Sebastian, il suo giovane carceriere. Rafael Rodrìguer Rapun è stato segretario del gruppo di teatro universitario “La Barraca”, diretto da Federico Garcia Lorca, fucilato all’inizio della guerra, e suo ultimo compagno. In un serrato confronto tra i due, Rafael tenterà di coinvolgere Sebastian in un duplice compito, portare alla sua famiglia un messaggio di speranza e recuperare un inedito manoscritto di Lorca salvaguardandone la memoria affinché le generazioni future ricevano un patrimonio il più completo possibile del grande poeta. Nel libro è presente anche un altro testo, Cliff (il dirupo), sulla vita dell’attore Montgomey Clift.

J’attendrai di José Ramón Fernández, a cura di Simone Trecca, è frutto di un travagliato processo creativo: “nasce dall’imperativo morale di una memoria che non è la propria e che tuttavia esige di essere detta, di trovare un luogo in cui propagarsi e proiettarsi sul nostro tempo. Nonostante le evidenti tracce autobiografiche presenti nel testo, che assumono la forma dell’autofiction, quest’opera ha origine da un vuoto, da un’eredità errante o, se vogliamo, latente. Dall’incapacità e, forse, dall’impossibilità di accedere ad un passato traumatico vissuto dall’altro da sé. In J’attendrai l’autore (la sua proiezione autofinzionale) si fa portavoce di un mandato etico che nasce dall’esperienza personale, non già dai fatti, bensì del possibile oblio dei fatti, perché tutti, in qualche modo, rischiamo di dimenticare e di cedere alle barbarie” (Simone Trecca). Il nipote di un sopravvissuto solo dopo la morte dello zio Miguel tenta di sottrarre all’oblio quella storia che è la storia condivisa di una tragedia.

Infine, Il giardino bruciato di Joan Mayorga, a cura di Paola Ambrosi, si svolge in un ospedale psichiatrico spagnolo negli anni ’70: l’arrivo di un nuovo psichiatra fa emergere una storia oscura, sepolta e negata dal direttore Garay, custode dei misteri dell’ospedale: nel 1939 un’incursione squadrista fucilò e seppellì in una fossa comune nel giardino dell’ospedale dodici ‘pazienti’- tra cui il poeta repubblicano Blas Ferrater -sulla cui esecuzione e identità permangono molti dubbi. Elemento inquietante è la presenza di una statua – Blas Ferrater? – che dialoga, enigmaticamente, con il giovane psichiatra, che cerca di far emergere verità occulte che i pazienti ricoverati rivelano però sempre parzialmente…

Oltre al tema della memoria da costruire e salvaguardare e al periodo storico a cui si riferiscono, questi testi evidenziano in maniera forte una certa ‘continuità’ o ‘ripetitività’ nel tempo, fino ai giorni nostri, un appello quindi a non dimenticare e a rinvangare nel passato per far emergere storie e verità, come Janis, la fotografa madrilena protagonista di Madres paralelas (2021) di Pedro Almodóvar, ostinata a recuperare il corpo – la memoria – del nonno, ucciso durante la guerra e desaparecido in una fossa comune.

Rosa Maria Grillo

Già docente di Lingua e Letterature ispanoamericane presso l’Università di Salerno, dirige la rivista “Testi e Linguaggi”, la Collana del Dipartimento di Studi Umanistici “Biblioteca di Studi e Testi” e la collana di narrativa “Mirando al Sur”. Autrice di sei monografie: Racconto spagnolo, 1985, Exiliado de sí mismo, José Bergamín en Uruguay, 1999, Emigrante/Inmigrado. Una doble identidad en el espejo de la literatura uruguaya, 2003, Escribir la Historia, 2010, Cinquecento anni di Civiltà e Barbarie, 2021, Vivere per testimoniare, testimoniare per vivere, 2022, e di saggi pubblicati in Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti, Colombia, Argentina, Paraguay, Uruguay

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