Con Paolo Taviani il cinema d’arte agguantava il sociale

Del maestro scomparso circa due settimane fa e del fratello Vittorio, Martin Scorzese ha detto: "Ogni volta che vedo un loro film c'è dentro di me un impatto emotivo profondo. Il loro lavoro è diverso da qualsiasi altra cosa abbia visto. È moderno, qualcosa di nuovo. Per me hanno fatto dei film bellissimi”. Queste parole sono state pronunciate in occasione della retrospettiva che il Bfi ha organizzato nelle sale del Southbank di Londra, e che continuerà fino a domani, 12 marzo

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Paolo Taviani, il noto regista si è spento pochi giorni fa a 92 anni

“Ogni volta che li vedo, i loro film mi lasciano un impatto emotivo profondo. Il loro lavoro è diverso da qualsiasi altra cosa abbia visto. È moderno, qualcosa di nuovo, per me hanno fatto dei film bellissimi”. Sono parole di Martin Scorsese, in occasione della retrospettiva che il Bfi ha organizzato nelle sale del Southbank di Londra  fino a domani, 12 marzo, in omaggio al maestro del cinema italiano Paolo Taviani, scomparso lo scorso 29 febbraio. Cineasta che, con il fratello Vittorio (scomparso nel 2018), ha attraversato sessant’anni di cinema italiano e quindi di storia e di impegno civile. Un omaggio, internazionale, questo di Londra, che certifica quanto il cinema dei due fratelli originari di San Miniato sia stato a tutti gli effetti un cinema seguito, studiato ed analizzato fuori dal nostro paese perché frutto di quell’eclettismo e di quell’apertura culturale che solo due straordinari cineasti come i Taviani potevano testimoniare.

Un rapporto simbiotico con i colleghi stranieri, quello dei Taviani: lo stesso Paolo fu riconoscente ai registi tedeschi Herzog e Schondorff che arrivarono ad incatenarsi davanti al cinema che si rifiutavano di proiettare Padre Padrone, film crudo, spartiacque, film che denunciava una condizione esistenziale e storica di una Sardegna ancestrale non di facile e di immediata comprensione. Un film che, tratto dall’omonimo racconto di Gavino Ledda pubblicato per Feltrinelli, valse la Palma d’oro al Festival di Cannes e poneva il cinema dei Taviani, dopo diverse pellicole di impegno civile e a tratti filosofico (come dimenticare la mirabile interpretazione di Giulio Brogi  nel “San Michele aveva un gallo”, che delineava la crisi della nuova generazione di rivoluzionari marxisti nella lettura del loro amato Tolstoj), in una differente visione artistica come quello del delicato affresco letterario e della trasposizione elegante del classico.

“Tra gli anni sessanta e gli anni settanta la narrativa dei nostri film […] era soprattutto politica. Noi e i nostri amici ci muovevamo in una dimensione politica, vivevamo e operavamo nella politica.”, raccontavano i fratelli, uniti nella vita e nella professione. Uniti, citando Carlo Castellaneta, da quel “vincolo di complicitià” che nei decenni non è mai venuto meno: sapevano, entrambi, infatti, di consegnare l’uno all’altro un metodo, che si trasformava e si raffinava: se Vittorio era l’intellettuale tra i due, coadiuvato dalla raffinata cultura del fratello, Paolo affinava la tecnica cinematografica.

Non è facile inquadrare o definire il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, specie per un giovane analista che, per ragioni anagrafiche, non ha vissuto il contesto storico-politico narrato in molti dei loro film. La loro innovazione , credo, potrebbe essere definita quella di un cinema di “non luogo”. Bernardo Bertolucci, straordinario maestro anch’egli, definì il loro cinema come “cinema post neorealistico, ma con un’ottica rosselliniana”; il regista de “L’ultimo Imperatore”  riscontrò nelle loro pellicole la lezione di Rossellini di un cinema di realtà (dunque neorealista) con “inquadrature né troppo lontane né troppo vicine a quello che si filma  ma con straordinarie iperbole” e citò l’emblematica e figurativa scena finale di quell’immortale capolavoro di Allonsanfan (film di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario e che narra il triste epilogo di un ex giacobino ed ufficiale napoleonico e che andrebbe ripreso per la sua attualità di visione storica) nella “Rabbia e Tarantella” di una popolazione che avanza sulle note di Ennio Morricone quasi alienata dalla fine imminente . Un protagonista dei nostri tempi, Fulvio Imbriani ,che per tutta la sua storia cerca di riallacciare un filo di un’ideologia che mano mano che si sgretola ne evidenzia i dubbi nel suoi sostenitori. Ed allora tesse, distrugge, avendo sempre come obiettivo una Rivoluzione..delle coscienze”.

Poesia e guerra, non dimenticando anche stavolta l’amata iperbole e la visione come sogno, Paolo e Vittorio Taviani trattarono magistralmente in “La notte di San Lorenzo”, film commovente e delicato, intimo, rievocante un episodio reale accaduto ormai ottant’anni or sono proprio nella loro “San Miniato”, nell’agosto 1944, quando la popolazione cercò di trovare rifugio nelle truppe americane per sfuggire alle rappresaglie naziste. Dolcezza e gratuita ferocia, spesso inquadrate con gli occhi innocenti di una giovane protagonista (che arriva ad immaginare la morte del gerarca nazista grazie alle frecce lanciate da un immaginario guerriero acheo frutto delle favole che il nonno gli raccontava), si alternano in questo capolavoro dei registi fratelli, in cui lo smarrimento della popolazione del piccolo luogo è micro e macrocosmo della disgregazione generale di un’Italia spaccata.

Una notevole quantità di temi e tematiche costituiscono gli altri lavori dei Taviani, come il primo film “un uomo da bruciare con Gian Maria Volontè, “Sotto il segno dello Scorpione”, “Fiorile”, “Good morning Babilonia” , la rappresentazione  figurativa della Sicilia pirandelliana in” Kaos” sino ai recenti “La masseria delle allodole”, tratto dal romanzo di Antonia Arslan, e l’esperimento riuscito del film in stile docu-trama di “Cesare deve morire”, girato interamente nel carcere di Rebibbia con i detenuti , molti dei quali con “fine pena mai”, fino alla trasposizione del Fenoglio di “Una questione privata” e l’ultimo film “Leonora, addio”, firmato solo da Paolo. Un film altamente significativo “Cesare deve morire”, in cui l’arte fa conoscere la” vera prigione” del carcere, in cui “la cella diviene prigione” e che ha dato prova ad ex detenuti come Salvatore Striano, Cosimo Rega e molti altri di affermare il proprio talento. Un film che riportò l’Orso d’Oro all’Italia dopo ventuno anni dalla vittoria de “La casa del sorriso “ di Marco Ferreri.

“Grazie per tutte le emozioni che ci avete fatto vivere con l’incanto, la bellezza, la profondità, la profonda umanità dei vostri film – ha affermato il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, durante il funerale laico di Paolo Taviani nella sala della Protomoteca in Campidoglio. “Oggi è una giornata di tristezza per la grave perdita che ha colpito la famiglia di Paolo Taviani e la nostra comunità – ha aggiunto il sindaco-. Siamo qui per esprimere un sentimento comune di affetto e profonda gratitudine per tutto ciò che Paolo ha donato a tutti noi con la sua arte, insieme al suo amato Vittorio. Accogliamo Paolo per un momento pubblico di commiato. Glielo dobbiamo, glielo deve questa città. Lui insieme a Vittorio ha scelto questa città per realizzare il suo progetto di vita nel cinema – ha spiegato Gualtieri -, quindi la prima cosa che mi sento di dire è  un enorme grazie a Paolo. Con lui naturalmente accomuno anche Vittorio che ci ha lasciato quattro anni fa”.

Mi lega al maestro un ricordo personale di una telefonata e un carteggio realizzato in preparazione di un incontro con lui per un omaggio alla sua persona purtroppo non realizzato a causa della pandemia Covid-19. Il maestro fu gentile e disponibile e con lui si discusse proprio di questa interessante simbiosi nelle loro pellicole di “Cinema e Letteratura”. Un cinema che, come tutta la generazione dei maestri impegnati nel  civile, appartiene  già alla classicità contemporanea.

 

 

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