Il convivio tra amici per ravvivare il ricordo del caro estinto

Il cibo diventa un punto di congiunzione tra vivi e morti, quale radicamento alla terra a protezione di chi resta dall’abisso del vuoto

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Un bassorilievo raffigurante un banchetto funebre dell'antichità

Negli Stati Uniti d’America l’estremo addio ai congiunti passati a miglior vita si celebra con un funeral party, un vero e proprio festeggiamento per il trasferimento nell’al di là. Parenti e amici si ritrovano in spazi appositamente allestiti per l’occasione, tra video e fotografie dei momenti lieti trascorsi insieme alla persona scomparsa, mentre un accompagnamento musicale ne allieta il viaggio verso la “nuova dimensione”. La circostanza è al centro di una irriverente commedia inglese (Death at a Funeral, 2007), in cui la solennità del commiato estremo è turbata dalle comiche interferenze dei sentimenti contraddittori di una famiglia caotica, segnata da gelosie, uso di droghe, segreti, desideri frustrati e ricatti. Per quanto gli italiani siano ancora lontani da queste abitudini, sul nostro territorio nazionale sono sempre più diffuse le Case del commiato, spazi opportunamente allestiti per ricevere le visite di condoglianze, dotati di un punto bar e, per chi vuole, attrezzati anche per organizzare dei piccoli rinfreschi. Al di là della praticità di una soluzione che può sembrare dissacrante ma che, di fatto, solleva famiglie già provate dal dolore della separazione dall’onere di dovere preparare le proprie case per ricevere le numerose visite di rito, l’usanza di mangiare insieme dopo la scomparsa di una persona cara non è scandalosa né deriva da una cinica pratica consumistica, ma affonda le radici in tradizioni molto antiche. Nel Mezzogiorno d’Italia è diffusa per esempio la pratica di regalare zucchero e caffè alle famiglie che hanno subito un lutto, così come di provvedere per qualche giorno alla preparazione del pranzo e della cena per il loro sostentamento, quale segno di affetto e condivisione del dolore. L’usanza è rievocata in maniera ironica nel film “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica (1954), tratto dall’omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta: in uno degli episodi (“Pizze a credito”), Paolo Stoppa interpreta il ruolo di Don Peppino che, appena diventato vedovo, piange e si dispera con grande teatralità per la scomparsa della moglie, simulando l’intenzione di volersi suicidare per attirare l’attenzione dei presenti, mentre è in realtà assai più sensibile alle consolazioni offertegli dalla bellezza di donna Sofia (Sophia Loren) e dalla bontà delle sue pizze fritte. La cinematografia si ispira così a consuetudini popolari che traggono il proprio significato dal rapporto profondo tra morte e vita, particolarmente coltivato nelle culture del Mezzogiorno d’Italia, come dimostrato dagli studi di Ernesto De Martino sul lamento funebre (Morte e pianto rituale). Il cibo diventa così un punto di congiunzione tra vivi e morti, quale radicamento alla terra a protezione di chi resta dall’abisso del vuoto e dalla compromissione della propria integrità mentale e spirituale. La funzione più profonda del convivio è quindi quella di sostenere i vivi e metterli al riparo dall’irruzione della follia di fronte alla più scandalosa e inaccettabile conclusione della parabola terrena della vita, qual è la morte dei propri cari. Mangiare insieme non significa dunque cancellare il dolore e il cordoglio per la loro scomparsa, ma esprime invece il bisogno di tenerne vivo il ricordo e la necessità di rimanere saldamente ancorati a un piano di realtà e di umanissima saggezza nell’accettazione degli eventi ineluttabili e condivisi dall’intero creato. Ecco perché il rito del banchetto funebre è presente nelle civiltà di ogni tempo. Le tombe egizie, per esempio, contengono affreschi raffiguranti scene di banchetti organizzati per i defunti esattamente come dei normali convivi: i commensali occupano i propri posti, con i servi che gli porgono le portate, mentre i musicisti rallegrano la riunione. Analogamente nelle iconografie etrusche abbondano le figure di banchettanti distesi sui “klinai”, così come i riti funebri greci sono accompagnati da un piccolo banchetto dopo l’inumazione del corpo della persona estinta. La pratica si trova altresì al centro della tradizione funeraria romana e si perpetua in forme analoghe, pur se in altro contesto, nel “refrigerium” cristiano, dove la condivisione del cibo è legata al suo significato più profondo: non è la risposta a un semplice bisogno materiale, ma la condivisione simbolica di un gesto d’amore, in cui la morte e la vita coesistono. Una coesistenza che per i credenti emerge dal rito del pane e del vino, sublimato dalla loro transustanziazione nel corpo e nel sangue di Cristo durante l’Eucaristia; e per i non credenti si radica in una cultura plurimillenaria che onora la memoria dei morti attraverso la vita di chi ne custodisce il ricordo, raccogliendone l’eredità e proseguendone l’opera.

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