La Chimera è un viaggio poetico

Il film, rimasto a digiuno ai David di Donatello, non è nazionalpopolare. Appare come una perla il cui guscio si schiude lentamente per poter avere contezza solo alla fine della sua bellezza

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È davvero bizzarro che un film come La Chimera sia rimasto a digiuno ai David rispetto al pluripremiato C’è ancora domani, di certo più didascalico e di conseguenza più immediato. Sintomo dell’entusiasmo troppo semplice e unilaterale di noi italiani intenti ad ammirare il dito e non la luna.

Ma i film non si giudicano con i premi e La Chimera forse non è un film che prevede un’accoglienza nazionalpopolare, artefice poi quasi sempre di una inevitabile semplificazione di fondo; La Chimera è una perla il cui guscio si schiude lentamente per poter avere contezza solo alla fine della sua bellezza filmica.

Alice Rohrwacher sembra introdurci in un mondo fuori dal tempo le cui coordinate ci arrivano solo a metà film attraverso una stazione abbandonata: Riparbella. Nella Tuscia degli anni ‘80, nei territori in cui la regista è cresciuta, un gruppo di giovani si guadagna da vivere andando alla ricerca di tombe antiche da cui trafugare clandestinamente reperti archeologici. Ma ‘il vero pezzo forte di questa banda’ è Arthur (Josh O’ Connor nella sua performance più intensa) un giovane inglese che ha la capacità soprannaturale di riconoscere il punto in cui si trovano le tombe etrusche. Arthur è lo straniero per gli altri, non solo per le sue incerte origini britanniche, ma perché la sua casa sembra risiedere al di là del mondo terreno, in un oltretomba che lo attira a sé fisicamente e che egli visceralmente indaga. Non è chiaro come un inglese possa ritrovarsi nei territori dell’Italia centrale e scegliere di restarci, la risposta però ci arriva già nelle prime scene, attraverso l’immagine di una ragazza dal nome di Beniamina, sua ex fidanzata morta. Lei è la prima Chimera, la sua radice, l’Euridice che Arthur tenta continuamente di raggiungere. ‘Ancora non l’hai trovata?’ Chiede Flora (Isabella Rossellini), ‘ No, non ancora’ risponde Arthur. Arthur cerca Beniamina ogni volta che percepisce il punto in cui si trova qualche reperto. La trova solo alla fine, in un filo rosso che gli indica la luce dall’al di là, nel momento in cui diventa parte di quei reperti che ha cercato più per bisogno che per denaro, in quell’oltre tomba di statue che non sono fatte per gli occhi umani e che il suo corpo ha sempre riconosciuto come casa.

La Chimera è un viaggio poetico in cui lo stile commovente e ispirato di Rohrwacher tocca le punte più alte. Nelle parole di Pirro ‘Chi lavora è pallido e giallo..’ c’è l’Alberto Sordi de I vitelloni che sbeffeggia i lavoratori, nella morte di Arthur c’è l’Accattone di Pasolini ‘mo sto bene’. La regista mescola passato e presente per mettere in scena l’importanza dei ricordi e di come l’uomo abbia un bisogno vitale di custodirli e lo fa anche attraverso le scenografie dimesse, la casa di Flora, la stazione abbandonata, i reperti nelle tombe etrusche; tutti cimeli che sembrano non sottostare al passare del tempo e che rappresentano il fil rouge (come quello di Beniamina) tra la vita e la morte. Nel film il passato assume dei caratteri propri, Rohrwacher assieme alla direttrice della fotografia Hélène Louvart (che ha lavorato anche con Agnes Varda) sceglie di affidare ai flashback di Arthur il formato 16 mm che ricorda una cartolina o un disegno alternandolo al 35 mm, sintomo di un’esigenza di raccontare non solo attraverso le parole ma anche attraverso le immagini
Ne La chimera c’è tutta la cifra narrativa della regista, fiabesca ma autentica, senza mai scadere nel naïf o nel didascalico, un tratto caratteristico che è il nutrimento necessario di quello che si è solito definire cinema di poesia.

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