Cantava Pino Daniele “Napule è na’ carta sporca, e nisciuno se ne importa”.
Potremmo riparafrasare il verso ed estenderlo al paese intero? O almeno alla parte più attrattiva di esso?
L’Italia è una carta unta, con riferimento alla modalità di consumazione turistica delle città della bellezza: Roma, Firenze, Venezia. E non solo. Il “mangificio” è ovunque, nei dehors, sui tavolini nelle piazze, nei vicoli, nei cortili, nel mangia e cammina. Ovunque lo spazio fisico consenta un minimo spaccio di specialità vere o presunte da ingurgitare.
A Firenze il quartiere a ridosso di Piazza della Signoria è stato ribattezzato Borg’Unto, espressione che non ha bisogno di spiegazioni. Per la città è stato calcolato che vi sia un bar o un ristorante ogni 31 abitanti.
Quanto alla ricettività, sui portoni di molti palazzi storici e meno storici le scatolette dei self check dei B&B hanno sostituito i campanelli, con nomi di richiamo: Michelangelo, Leonardo, Botticelli. Il più facile dei marketing. Sai, ho dormito nella suite Galileo. Si vedeva il Campanile di Giotto. Chissà se anche il grande scienziato ha soggiornato qui?
I salari degli addetti sono bassi e il nero è alle stelle. I prezzi sono esplosi. Gli abusivi anche. Delle condizioni igieniche della preparazione dei cibi e dei ricoveri notturni nessuno per ora parla. Dei controlli non si hanno statistiche.
In Italia, il turismo è arrivato a sfiorare il 15% del Pil ed è la prima industria nazionale, la via italiana alla ripresa economica. Intanto la manifattura retrocede e l’economia dei servizi digitali cresce meno del PIL, ancora impegnato a recuperare i livelli pre-pandemia. Scuola e sanità perdono altri colpi e il PNRR non è la panacea che tutti si erano immaginati.
Ma tant’è, quello che conta sono i risultati immediati, del primum edere, deinde philosophari, prima mangiare, poi discettare, dei soldi da afferrare da questa rinascita improvvisa e inaspettata del paese della cultura, della bellezza, della natura, della storia, dell’arte, della santità. Del paese dei santi, dei poeti, dei navigatori. Meno del lavoro industriale, dello studio e del livello di istruzione tecnico scientifica, degli investimenti, delle riforme, delle trasformazioni strutturali. Il carpe diem è più attraente di qualsiasi programma. Ci si improvvisa osti e albergatori, guide e agenzie turistiche, piattaforme di vendita d’ogni che, in nome del localismo, del chilometro zero, del biologico, delle eccellenze. Dell’arte, compresa quella culinaria. Veni, vidi, edidi. Venni, vidi, mangiai. Fulminei, come Giulio Cesare in Gallia.
Anche il populismo museale del sempre aperti è cibo, cotto e mangiato in fretta. Venghino, venghino, siore e siori, a vedere le meraviglie del passato, della culla della cultura. A ogni ora del giorno e della notte. Una botta d’arte è sempre meglio di niente. Qualcosa nelle menti resterà. Il livello culturale del paese si innalzerà, la spiritualità si eleverà dai crucci della vita materiale.
Chi ha stupidamente detto che con la cultura non si mangia? Non è vero. Con la cultura, con l’arte si mangia e si beve, eccome e in abbondanza! Se poi si deturpa, si sporca, si consuma, i costi fanno parte del giuoco. Che vuoi? Vuoi respingere masse, pronte alla felicità dello spirito e alla sazietà del corpo? Il luna park del mondo. Salvo scoprire tra un pò che la moda si è trasferita altrove, dove le strutture sono più accoglienti, i servizi migliori, i prezzi più bassi. La fedeltà non è del turista, fedifrago e traditore.
Nel frattempo avremo perduto l’ennesima occasione di impostare una politica turistica, lungimirante, con appropriati incentivi per gli investimenti, in luogo del disordinato fai da te.
Economia&Finanza Verde recensì qualche tempo fa il libro dal titolo emblematico L’economia di Lucignolo dell’economista Marcello De Cecco, il quale all’inizio del millennio spiegava il destino della nostra economia, rifacendosi proprio alla metafora del disgraziato amico di Pinocchio, un neet ante litteram (not in education, employment and training), alla ricerca dei propri sollazzi nel Paese dei Balocchi. Fuor di metafora, il saggio spiegava i costi economico-sociali dell’aver ridotto il peso dell’industria medio grande a vantaggio di attività più effimere e piccole, come quelle che nascono intorno al turismo d’abord.
Del resto, di un miracoloso Paese di Bengodi aveva già fantasticato Giovanni Boccaccio, in una delle sue più famose novelle.
La storia d’Italia si muove dal Paese del Bengodi al Paese dei Balocchi, per arrivare al Paese della Carta Unta? O è il solito disfattismo qualunquista, che alimenta queste strambe osservazioni?