“Ognuno di noi è la mappa dei suoi giri intorno alla terra che non c’è”.
Reputo L’atlante dei paesi invisibili il libro dello stupore grande.
Nelle peregrinazioni di Arminio nei paesi veri lo stupore non mancava, avendoli lui da sempre frequentati e guardati con lo sguardo di un poeta innamorato a volte, di un padre compassionevole tal’atra, di un paesologo sempre. Ricordate la sua cura dello sguardo? ’Ci si può curare di sé guardando fuori…
I suoi giri al cimitero di Conza, paese prediletto?
In Caraluce di stupore ce n’è ancora di più. E tutti questi piccoli paesi da lui inventati, diventano satelliti di un unico grande paese, quello della gioia. È un poeta malinconico Arminio, pure tanto gioioso. È un poeta che frequenta da sempre l’idea della morte, pure quanta vita gli scorre lungo il corpo. Dico corpo perché lui, contrariamente a quanto si possa pensare (perché i poeti li si immagina sempre come persone preminentemente spirituali), è un poeta del corpo e lo ha sempre ribadito. Qui il suo corpo prende a correre in groppa alla fantasia, manifestando un vero furore creativo, e penso di pari passo anche esistenziale, giacché non è uomo che si fermi.
In questi paesi invisibili la sua fantasia varca ogni confine, e salta fuori gioiosa e pura. Con lei, ritorna il Franco bambino, nato per spiare il mondo. Accadeva in quell’osservatorio privilegiato che era l’osteria dei suoi genitori a Bisaccia, paese reale ma, per certi aspetti (che ora purtroppo non esistono più), anche fantastico, come uscito da una fiaba.
Nella sua infanzia, la dicotomia realtà-fantasia si ripete sempre, e chissà che non sia stata questa la prima incubatrice della sua scrittura.
Nell’attuale libro, ad animare il suo polimorfismo eclettico, troviamo tutti gli Arminio, lì schierati come soldatini di latta pronti all’azione nelle mani di un bimbo (“I paesi invisibili li ho scritti con una ragione bambina…”).
Innanzitutto il paesologo-geografo (“Credo di avere una fede geografica…”), che prende una fetta importante del suo io persona, poi il poeta,
“Hanno costruito case ovunque, anche nel bianco degli occhi.”
“Un uomo una volta fece un colpo di tosse, gli uscì il paese che aveva dentro e lo chiamò Destino.”
“Qui il cielo lo raccolgono con le mani e lo portano a casa, nessuno torna a casa senza aver preso con sé un po’ di cielo. Alcuni, i più premurosi, lo stendono sulla schiena delle donne prima di fare l’amore.”
Poi il fotografo, l’uomo civico, l’innamorato, e tanti altri ancora a un’analisi più larga se ne potrebbe annoverare. Ecco, mi viene in mente l’uomo ironico, satirico, perché in questo libro anche l’aforisma satirico è ben rappresentato.
“A Nepanaro non pensano mai niente, ma il giorno dopo la pensano diversamente.”
“Qui gli abitanti sono sempre annoiati e per questo viaggiano molto, viaggiano per sbadigliare altrove.”
“È il paese dell’ultimo respiro e noi siamo i turisti dell’estrema unzione.”
Ma quel che ci interessa di più, è dire che questo libro ‘senza mete’, tanto che persino la lingua si avverte libera e vagabonda, va letto lasciandosi andare all’immaginazione, all’idea di fratellanza e di luoghi dove il vivere è bello. Prendendo tra le mani questi fuochi fantastici senza paura di scottarsi. Come diceva Calvino: “Le fiabe sono vere”.
L’uscita ufficiale del libro è programmata per il 25 febbraio prossimo, ma è già possibile acquistarlo online o presso Arminio con l’antica usanza del baratto.