“Il tagliapietre”: la drammaturgia spiazzante di Cormac McCarthy

È la storia di un tentativo disperato: quello di proteggere sé stessi e i propri cari dall’ingiustizia, confidando nella bontà del proprio modo d’agire. Ma cosa succede quando questo non basta? Tanti e complessi gli interrogativi che il testo è in grado di accendere, primo fra tutti il rapporto tra l’individuo e le fatiche quotidiane, e il significato profondo di queste ultime in una più ampia cornice esistenziale. Nell’opera di McCarthy, la solitudine dell’essere umano diventa, inaspettatamente, la forza motrice che può spingerlo a sognare nuovi orizzonti

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Pubblicato dalla casa editrice Einaudi lo scorso gennaio, nella traduzione di Maurizia Balmelli, Il tagliapietre è un lavoro nato dalla penna di Cormac McCarthy qualche decennio fa, pensato per la scena e rimasto a lungo inedito in Italia.

Il titolo allude al trentenne Ben Telfair, scalpellino per scelta e per vocazione, che decide di abbracciare il mestiere del nonno, cui è profondamente legato. Il giovane, felicemente sposato e in attesa della nascita del secondogenito, non si è mai allontanato dalla famiglia d’origine, facendosi carico anche dell’educazione del nipote Soldier. Sullo sfondo, il Kentucky: è l’inizio degli anni Settanta, la società vive – allora come oggi – trasformazioni rapide e imprevedibili, e i problemi non risparmiano la famiglia Telfair.

Tra gli autori statunitensi più apprezzati della sua generazione, McCarthy (1933-2023) ha scritto romanzi, per il teatro e per il cinema, ottenendo prestigiosi riconoscimenti e raggiungendo i lettori di oltre 50 Paesi. Al 2007 risale il Pulitzer per la narrativa, per La strada (2006); preceduto da Non è un paese per vecchi (2005), portato sul grande schermo dai registi Ethan e Joel Coen. Era il 1965 quando veniva dato alle stampe, edito da Random House, il suo primo romanzo, Il guardiano del frutteto, seguito, tra gli altri, da Suttree (1979). È in seguito a quegli anni, quando McCarthy ha già alle spalle testi importanti e alcuni tra i suoi migliori ancora da scrivere, che prende forma The stonemason.

La drammaturgia ruota intorno alle vicende della famiglia Telfair. Un tempo aspirante psicologo, Ben ha abbandonato l’università per dedicarsi all’arte della costruzione muraria, di cui l’ultracentenario Papaw è il custode. È la personalità di quest’ultimo a orientare l’esistenza del protagonista, che guarda a quell’uomo come a una guida insostituibile, in grado di trasmettergli valori duraturi. Papaw ha una visione ben precisa di ciò che debba significare il “mestiere” nella vita di una persona. A queste regole, che sanciscono il rapporto immutabile tra il lavoro dell’uomo e l’antica pietra, Ben si aggrapperà per andare avanti e non arrendersi dinanzi agli sfortunati eventi che scuotono la sua famiglia. “Il mondo è davvero un posto così ostile?” gli domanda sua moglie Maven a un certo punto. “Non lo so. So solo che vedo naufragi da tutte le parti e sono determinato a non naufragare”. Il tragico destino di suo padre Big Ben e di Soldier, che Ben cerca di indirizzare verso scelte meno azzardate, lo porteranno a scontrarsi con la realtà e a riconoscere l’unicità del cammino di ciascuno, anche quando è doloroso da accettare. Il tagliapietre è, infatti, la storia di un tentativo disperato: quello di proteggere sé stessi e i propri cari dall’ingiustizia, confidando nella bontà del proprio modo d’agire. Cosa succede quando questo non basta?

In un avvicendarsi di conversazioni familiari e di monologhi che racchiudono le riflessioni portate avanti dal protagonista, è appunto quest’ultimo a narrare la storia: in scena, infatti, c’è un doppio Ben, l’uno racconta, l’altro porta avanti l’azione. Si tratta, forse, della rievocazione di un giovane uomo che deve fare pace con gli errori del passato? Se la trama dell’opera è piuttosto semplice, diversi sono i temi trattati – tra questi, i delicati equilibri familiari e il razzismo subito dalla famiglia Telfair – così come i livelli interpretativi verso cui l’autore indirizza il lettore. Tanti e complessi gli interrogativi che il testo è in grado di accendere, primo fra tutti il rapporto tra l’individuo e le fatiche quotidiane, e il significato profondo di queste ultime in una più ampia cornice esistenziale. Centrale è l’accostamento al libro di Giobbe: attraverso il parallelismo biblico, l’autore tratteggia un personaggio destinato a fare i conti con l’impotenza, ad accettare la propria limitata natura. Ben riuscirà infine a rimanere saldo, a cercare una risposta che vada oltre il nichilismo e in cui sia possibile scorgere il senso della vita. “Nessuno può posare pietre col pensiero che poi magari dovrà buttar giù tutto “, queste le sagge parole dell’anziano Papaw.

Nell’opera di McCarthy, la solitudine dell’essere umano diventa, inaspettatamente, la forza motrice che può spingerlo a sognare nuovi orizzonti, quel futuro che forse non vedrà mai ma che nasce proprio dalle sue mani e, in virtù di questo, non può che appartenere anche a lui.

 

Annateresa Mirabella

Nata nel 1996, è laureata in Semiotica e in Filologia Moderna. Attualmente frequenta il master in Critica Giornalistica presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico

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