Il Comune di Roma lanciò qualche anno fa un bando interno per individuare altre tre figure professionali da destinare all’ufficio stampa del Campidoglio. I nuovi comunicatori avrebbero dovuto dimostrare “un’ottima conoscenza delle tecniche di fotoritocco”, cioè saper ripulire e imbellire una fotografia, al fine di migliorare la resa estetica dei soggetti ritratti. In quell’ufficio stampa lavoravano già 49 comunali più 15 giornalisti esterni. Tutti impegnati nella gestione dell’imponente flusso informativo e nelle rettifiche di informazioni ritenute non veritiere, denigratorie o anche solo non gradite. Il bando grillino confermava che non era più soltanto Berlusconi il politico della foto-video-politica e che la seduzione per immagine era diventata una mission irrinunciabile del movimento accreditatosi come principale competitor del Cavaliere, al tempo già nascosto dietro una stentorea maschera cosmetica.
Siamo ormai da anni ben oltre il tempo dei partiti personali, come dimostra l’entrata in scena dell’armocromista di Elly Schlein, comparsa in commedia che ha detto una parola definitiva sulla piena identificazione tra volto, abito e pensiero vuoto, simbiosi che comporta la negazione della vita reale, sulla quale dovrebbe edificarsi una società. Chissà che non si spieghi anche con quest’assenza di valori e con la sovrabbondanza di cromo-immagini il plateale e drammatico astensionismo elettorale degli ultimi tempi.
In questo clima, nel quale all’elettore non si richiede più il consenso ma una coscienza spettatrice da televedente, circolano appelli di vari simil-leader per generici “patti di civiltà” che rifondino i rapporti tra politica e paese e inducano, di conseguenza, a tenere lontano il voto di scambio anche mafioso. Accade dopo ogni elezione, quando la conta dei votanti si fa sempre più esigua. Sono appelli condivisibili nello spirito, ma che ormai vengono vissuti dagli elettori come sterili petizioni di principio, dal momento che considerano attive e autorevoli le forze politiche destinatarie del messaggio nonostante la loro evidente e inesorabile dissoluzione.
La mafia e la politica sono due poteri, diceva Paolo Borsellino, che vivono sul controllo dello stesso territorio, per cui o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. Per evitare che si verifichi l’uno o l’altro esito, occorre che si intercetti la mafiosità spicciola addensata nelle aree grigie attraverso le quali si infiltrano le azioni di chi fa politica in vista di tornaconti o di affari. Se invece le attività di partiti e movimenti congelano il piano valoriale, concentrandosi sulla seduzione e sull’attrattività dei messaggi, torniamo al fascismo che, ad un certo punto, ritenne addirittura di affidare il controllo della cultura e della propaganda ad un unico organismo istituzionale. Nacque, così, nel 1935, il Ministero della cultura popolare ed è per le identiche ragioni che la politica italiana di questi tempi conferisce all’immagine e alla “sorveglianza” formale degli interessi in gioco un valore assoluto. La produzione capitalistica della faccia da leader ha soppiantato l’identità reale della persona. Si è così liquefatto l’impegno a trasformare la realtà, compito al quale militanti e dirigenti un tempo si sentivano chiamati. Si vive nello schermo dello spettacolo – creatore di falsa coscienza – che copre abilmente eventi e contraddizioni della vita di un popolo.
La storia talvolta si ripete ad intervalli di tempo molto limitati e in questi giorni di profonda disaffezione, nei quali circolano in politica interessi lobbistici e familiari come non mai, si insinua la convinzione che una battaglia in favore della legalità sia diventata pressoché impossibile per mancanza di precondizioni etiche. Viviamo in un paese strano. Nel Mezzogiorno, in particolare, le attività direttamente criminali non superano il dieci per cento. Lo accertarono ricerche rigorose del compianto Amato Lamberti, studioso dei movimenti criminali, il quale riteneva che il vero dramma fosse la corruzione, che fa transitare soldi e interessi cospicui della criminalità nell’economia ufficiale. Le forniture per un solo genere alimentare, in un solo ospedale, diceva Lamberti, ammontano a qualche milione di euro all’anno. Altro che droga e racket. Da qui, l’assalto ad Asl e ospedali, che producono ricchezze e voti.
C’è una malattia che corrode la democrazia (“lupaggine” la chiama il professor Zagrebelsky) che è, appunto, la corruzione diffusa, l’attacco alla legge per la rincorsa di obiettivi effimeri e convenienti. Malattia che deforma la libertà e la riduce in schiavitù. La via d’uscita non può sostanziarsi in sterili dichiarazioni di intenti, alle quali ovviamente non si sottrarre formalmente nessuno perché le parole non costano nulla. La via d’uscita è nella volontà popolare che dovrà opporsi alla inabilità del fare e all’abilità del non fare. Erano i limiti che i padri della democrazia – da Nitti a Selvemini – denunciarono tanti anni fa. Voci attuali, che ci ricordano come la mafia esista solo perché fa comodo. I mafiosi, anche quelli potenti come Riina, Provenzano e Messina Denaro, muoiono o finiscono in cella. Se li porta via il tempo. Ma per sconfiggere la mafia occorre isolare i beneficiari dei suoi traffici, che non muoiono mai e si rinnovano soprattutto in politica. Pensiamo al familismo amorale campano, ben annidato anche nella sinistra corrotta e padronale che regge da più di trent’anni una rete di affari senza confini, Occorre una rivolta di civiltà, da promuovere già in vista del voto di primavera per le Europee. Nel nostro piccolo ci daremo da fare e alla ripresa di settembre cominceremo a costruire una grande iniziativa pubblica.