Se il marketing influenza la cultura

Il passaggio dagli atelier degli anni Settanta al body shaming

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Gli italiani da sempre apprezzano la bellezza delle forme umane: il fatto viene da lontano, dal Discobolo di Mirone, ai Bronzi di Riace, alla Venere di Milo, a quelle intriganti abbondanze delle donne romane dipinte nelle ricche case Pompeiane, una cultura trimillenaria; ma tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 le cose iniziarono ad ingarbugliarsi quando le maggiorate dei decenni precedenti non furono più prese in considerazione da stilisti come Versace, Lagerfeld, Klein, Saint Laurent e Valentino, tant’è vero che agli inizi del 2000 persino Claudia Schiffer fu definita da uno di loro una tettona! 😳

In realtà quest’orientamento bizzarro dei Couturier non aveva alcuna intenzione di ridefinire i canoni estetici delle donne ma basava su un serio motivo di marketing: gli stilisti si stavano spostando tutti dall’attività sartoriale dell’atelier, dove vestivano donne in carne ed ossa una per una, al Prêt-à-Porter, con creazioni pensate per grandi numeri che avevano bisogno di défilé di moda pubblici per far parlare giornalisti e Media e durante i quali dovevano vendere tanti capi d’abbigliamento ai buyer.

I vestiti fatti per i défilé erano cuciti con misure standard e dovevano scivolare a piombo sul corpo di qualsiasi mannequin, senza fare alcun difetto mentre camminavano sulle passerelle … quindi occorrevano donne con forme definite; inizialmente si iniziò a preferire la taglia 42 per ragazze alte 175-180 cm per poi passare alla 40 e quindi anche oltre, come ben riassunto in un passaggio del film “Il Diavolo veste Prada” quando Andrea (Anne Hathaway) chiede “Ma qui le ragazze non mangiano niente?” e Nigel (Stanley Tucci) risponde “Non più da quando la taglia 38 è diventata la nuova 40 e la 42 è la nuova 56…”.
Ecco, tutto cominciò in quegli anni poi questa decisione -unicamente di marketing- per osmosi si trasferì prima nella scelta delle fotomodelle per le pubblicità, quindi nell’immaginario femminile e infine nella cultura generale: si cominciò ad identificare il bello, il giusto e il politicamente accettato col magro, mentre il grasso era semplicemente fuori canone, soprattutto per le donne ma un po’ anche per gli uomini. A poco a poco questo canone entrò negli spettacoli di varietà, inizialmente con una tenue presa in giro del sovrappeso e dal 2000 con i Social iniziò il body shaming cioè la derisione verso chi si esponeva senza rientrare nei canoni di ciò che è intesa come unica normalità accettabile.

Oggi il body shaming è un bel problema, è un fenomeno sociale significativo, suscitando interrogativi profondi sulla natura umana e le dinamiche culturali. Nonostante i progressi nella promozione dell’accettazione del corpo e della diversità corporea, il fenomeno continua a influenzare individui di ogni etnia, genere e background socio-economico. Questa azione finalizzata a deridere od offendere il fisico di qualcuno può senz’altro essere definita come una forma di controllo sociale e riflette le norme culturali e le aspettative sociali riguardanti l’aspetto fisico, che spesso si traducono in ideali irrealistici e stereotipi distorti. In una società dominata dall’immagine; i Media, la Pubblicità e i Social giocano un ruolo significativo nel perpetuare standard di bellezza inaccessibili, contribuendo così alla diffusione di questa pratica.

…Noi, figli della Magna Grecia

Le radici del body shaming affondano sicuramente in contesti culturali e storici latini, è la nostra eredità greca, la tormentata e antica abitudine all’arte, al paesaggio, al pensiero filosofico e al bello ovunque guardiamo e quindi al notare, negli altri però, le cose che non vanno. La nostra storia, la moda e l’industria dell’intrattenimento hanno contribuito a definire canoni estetici e a promuovere ideali di bellezza che spesso escludono la diversità corporea. Con la globalizzazione gli standard di bellezza occidentali sono tracimati in tutto il mondo emergente dove questi canoni sono divenuti spesso dei must dai quali non si può prescindere. Ad esempio è noto che le ragazze bene asiatiche come regalo per la maggiore età chiedono ai genitori la blefaroplastica per farsi gli occhi europei, un naso meno schiacciato, vestiti di taglio italiano, creme francesi, cura delle unghie, perfino pratiche dolorosissime come l’allungamento di tibia e perone, etc… e a determinati livelli sociali si viene addirittura escluse dal lavoro senza un aspetto occidentale.

Tante le vittime del body shaming

Le persone che non corrispondono agli ideali di bellezza dominanti subiscono discriminazioni anche sul posto di lavoro, in specie nelle professioni delle Relazioni, nell’accesso alle risorse e alle opportunità di sopravanzamento professionale. Ovviamente tutto viene negato a prescindere sia dalle aziende che dai manager, ma questo loop di discriminazione e di marginalizzazione è praticato anche se ben celato, contribuendo così a una cultura del giudizio e dell’esclusione.

Ormai il body shaming corrisponde ad una vera e propria cultura dell’esclusione che trova il terreno ideale nei Social e nei Tabloid… e condiziona molto, come recentemente accaduto a:

Chiara Ferragni, dopo la sua partecipazione al Festival 2003 quando fu massacrata dagli hater che scoprirono in diretta TV che sia i seni che il lato B della signora non erano proprio quelli belli sodi e tondi mostrati sul suo sito per vendere Lingerie e creme rassodanti, ma in realtà piuttosto piatti.

Bigmama, la nostra conterranea di Serino, Marianna Mammone, ha subito per anni dai Social offese per la sua corporatura e continua a subirne anche dopo Sanremo… ma dopo gli ultimi successi ormai è una Vip -finanche vestita da stilisti- e quindi è lei che ha vinto e può anche fregarsene.

Adèle, la superstar britannica che dopo aver subito i Social per anni per le sue curve, decise di dimagrire: ma mica finì lì! E’ stata oggetto addirittura di un talk show che aveva come unico argomento la sua perdita di peso, con alcuni che l’hanno elogiata per il suo dimagrimento e altri che l’hanno criticata per aver cambiato il suo aspetto… Mah!
Si potrebbe continuare all’infinito a citare le vittime di questa pratica che dà voce a quella schiera di gente delusa dalla propria vita e che non ha null’altro da fare se non riversare, su chi nemmeno conosce, tutti i propri fallimenti: ma val la pena di ricordare che il body shaming non è uno scherzo, ma un reato: La sentenza n. 2251/2022 della Cassazione penale parla chiarissimo, ha sancito che il body shaming si configura quale reato di diffamazione.

Attenti quindi, leoni da tastiera! Le querele fioccano.

Carlo De Sio

Laurea in Scienze Politiche ed Economiche, Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni; dal 2015 è impegnato in attività di Lobbying indipendente in Italia e all’estero. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999

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