A cambiare profondamente l’università italiana nell’ultimo trentennio hanno contribuito più di tutto le riforme avviate a partire dal 1999 (nascita delle lauree specialistiche e introduzione dei crediti formativi), proseguite con la legge del 2004 (abolizione delle facoltà e nascita dei corsi di laurea di primo e secondo livello), fino a giungere ai provvedimenti del 2008 e 2010, relativi al reclutamento dei docenti, al peso delle valutazioni sulla qualità della ricerca assunti quali criteri per il finanziamento dei dipartimenti, alla modifica della governance attraverso la revisione degli statuti (per una rassegna più esaustiva cfr. A. Lombardinilo, L’università dei requisiti flessibili. La revisione della didattica e i cortocircuiti dell’accreditamento, in “Scuola Democratica”, n. 2, maggio-agosto 2017).
Il risultato più evidente è stata la liquidazione dell’università italiana ancora sostanzialmente modellata da Gentile nel 1923 e la nascita di una nuova, secondo gli intenti maggiormente in linea con i più moderni sistemi dei paesi occidentali. Evidentemente, diversi sono i giudizi e il dibattito scaturito da interventi così incisivi, quasi del tutto interno all’università, ancora continua, seppur ormai alimentato da pochi critici spesso marchiati di passatismo. Di certo, il processo decisionale è stato eccessivamente lungo e frammentato, scarsamente preparato e condiviso; ma soprattutto troppi sono stati i padri e le madri, e i loro orientamenti, che hanno generato in fasi diverse provvedimenti variamente ispirati, da Luigi Berlinguer e Ortensio Zecchino fino a Letizia Moratti e Maria Stella Gelmini, infine fortemente voluti da pochi consulenti tecnici, selezionati secondo i consueti criteri politici e scarsamente impegnati a comprendere le esigenze dei docenti e degli studenti che avrebbero dovuto rappresentare. Se si pensa alla mobilitazione e alla partecipazione che negli anni Settanta accompagnarono le riforme sulla partecipazione studentesca agli organi collegiali, probabilmente è legittimo pensare agli eccessi di quel tempo, ma anche alla tiepidezza degli anni più recenti in riferimento a provvedimenti di ben altra portata.
Il cambiamento ha condotto
a una svalutazione della didattica
Senza entrare negli aspetti specifici, è qui necessario rimarcare uno degli effetti più significativi del mutamento, ossia quello della svalutazione della didattica rispetto alla ricerca, sottolineando come il passaggio dal modello tradizionale a quello attuale abbia comportato un drastico ridimensionamento della prima a vantaggio della seconda. Sicché è possibile affermare che la «caratteristica imprescindibile dell’Università italiana, secondo la secolare tradizione che condivide con gran parte del sistema universitario europeo, la compresenza, e la reciproca fecondazione, di insegnamento e ricerca» (G.G. Balandi, Studiosi, studenti, risorse: l’insegnamento e la ricerca in diritto del lavoro, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, 2016, p. 1013), è stata profondamente indebolita.
Innanzitutto, l’eliminazione delle facoltà, strutture basate sull’organizzazione dell’offerta formativa, ha spostato l’attenzione quasi del tutto sulla gestione amministrativa e contabile, sulla ripartizione dei fondi di ateneo, sulle conseguenti opportunità in tema di reclutamento e progressione di carriera dei docenti. Inoltre, aver basato sulla qualità della ricerca la competizione tra docenti, dipartimenti e atenei per l’accesso alle risorse pubbliche, senza tener conto parimenti della qualità della didattica, ha comportato la prevalente concentrazione di energie alla produzione in molti casi di montagne di carta finalizzata a conseguire valutazioni, tra l’altro frutto di criteri e meccanismi molto discutibili (S. Cassese, L’Anvur ha ucciso la valutazione, viva la valutazione!, in “il Mulino”, n. 1, gennaio-febbraio 2013, pp. 73-9).
I processi decisionali appaiono opachi
per una serie di criptici acronimi
Insieme a una messe di criptici acronimi (cfu, ssd, cds, vqr, anvur, sua, rad, e quanti altri), che rendono ancora più complessi e opachi i processi decisionali, l’università moderna ha esaltato l’uso dell’algoritmo, affidando al calcolo, presentato come oggettivo e scientifico, la risoluzione di conflitti originati dalla distribuzione di risorse; di conseguenza, risultano mortificate le fasi dedicate al confronto e alla riflessione, che pure sopravvivono perché previste formalmente, ma ormai ridotte a rappresentazioni esteriori di partecipazione democratica. L’occupazione principale dei docenti italiani risiede ormai nella partecipazione forzata a una competizione permanente, forse più adeguatamente definibile come bellum omnium contra omnes, caratterizzata dall’ansia di inseguire classificazioni più elevate o, almeno, rientrare nei parametri minimi, ispirata da un’ideologia di fondo, quella neoliberista, «basata sui feticci dell’apicalità e dell’eccellenza» (A. Bellavista, Insegnamento e ricerca tra libertà e autorità, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, 2016, p. 1079).
La valutazione della qualità dei “prodotti della ricerca” orienta e indirizza la maggior parte dei loro comportamenti, essendo essa in grado di condizionare ogni aspetto della vita universitaria, dall’assegnazione dei fondi accessori di ateneo alla progressione di carriera, dalla ripartizione dei “quozienti” ai dipartimenti all’attribuzione dei fondi ministeriali ai diversi atenei. Viceversa, neppure monitorata risulta l’attività didattica, lasciata alla completa autonomia dei singoli docenti e pressoché priva di ricadute. Quasi del tutto inesistenti anche i relativi obblighi, come testimonia la mancata previsione di strumenti atti a verificare l’effettivo svolgimento dei carichi didattici attribuiti. La didattica erogata è autocertificata e gli organi preposti non hanno strumenti effettivi per censurare neanche il mancato assolvimento degli obblighi più elementari, quali il rispetto degli orari di inizio e fine lezione. Ciascun docente è tenuto a modulare il proprio insegnamento rispetto agli obiettivi generali del proprio corso di laurea, ma, se ciò non avviene, non è possibile intervenire per correggere l’impostazione, restando assoluto il principio di libertà d’insegnamento, in molti casi invocato per interessi particolari. L’unica forma di valutazione è affidata agli studenti, secondo modalità pur esse discutibili (questionari anonimi sulle capacità didattiche dei docenti, riferiti a una «stupida idea di democrazia» in G. Zagrebelsky, La lezione. Discorso, Einaudi, Torino, 2022, p. 32), da cui in ogni caso non derivano né premialità né penalità.
Si procede verso la taylorizzazione
dell’insegnamento e dello studio
Addirittura, le nuove procedure concorsuali hanno eliminato qualsiasi riferimento alla capacità di insegnare, accertabile nel sistema tradizionale attraverso lo svolgimento di prove scritte e della lectio, limitando il giudizio di idoneità all’esclusiva valutazione della capacità di ricerca. Impossibile, pertanto, non condividere la visione di chi denuncia la «deriva verso una sorta di taylorizzazione dell’insegnamento e dello studio» (A. Bellavista, Insegnamento e ricerca cit., p. 1075), l’opinione di chi vede la didattica ormai ridotta a «“lavoro accessorio”, un’incombenza che necessariamente si somma (con disappunto o con piacere personale, a seconda dell’indole di ciascuno) alla ricerca, oggetto principe» della più generale attività (G. De Simone, Didattica Cenerentola?, in “Lavoro e Diritto”, n. 4, 2016, p. 1084). Poiché «le sorti delle istituzioni e dei singoli sono venute sempre più a dipendere esclusivamente dalla capacità di pubblicare articoli scientifici», è aumentato il rischio di «implicita marginalizzazione delle attività di docenza. Pubblicare a sufficienza, essendo l’unico possibile strumento per acquisire risorse finanziarie sempre più necessarie, è divenuta l’attività più rilevante» (G. Viesti, Il declino del sistema universitario italiano, in Fondazione Res, Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, a cura di G. Viesti, Donzelli, Roma, 2016, p. 8).
Dagli anni Settanta a oggi la società si è profondamente trasformata e anche l’istituzione universitaria ha dovuto affrontare nuove sfide: soprattutto, l’«indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica» (M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014, p. 4) ha cambiato radicalmente il modo di essere insegnante mentre la transizione dal modello elitario a quello di massa ha necessariamente imposto l’esigenza di introdurre nuove regole. Pertanto, non si discute dell’opportunità di aver riformato strumenti che ormai richiedevano di essere aggiornati, quanto degli orientamenti imposti e degli strumenti scelti. In particolare, la crescente consapevolezza riguardo all’importanza del capitale umano per lo sviluppo e «della formazione universitaria nella performance economica dei territori» (D. Cersosimo, R. Nisticò, E. Pavolini, F. Prota, G. Viesti, Circolazione del capitale umano e politiche universitarie: un’analisi del caso italiano, in “Politiche Sociali”, n. 3, settembre-dicembre 2018, p. 388) ha avuto il merito di arricchire le riflessioni, in passato esclusivamente astratte e teoriche, ma rischia di contribuire all’affermazione di un paradigma economicista anche in tale ambito, imponendo visioni a prevalente carattere manageriale. Inoltre, l’impulso dato alla parcellizzazione dei saperi e allo scientismo dominante, caratterizzato da un tecnicismo esasperato, ha marginalizzato ancor più la visione sintetica e quindi umanistica, cancellando anche ciò che invece andava mantenuto in vita e che a lungo aveva costituito elemento caratterizzante del sistema formativo italiano, motivo di apprezzamenti provenienti soprattutto da quegli stessi paesi occidentali indicati poi come modelli del nostro processo riformatore.
Allo stesso tempo, tali scelte hanno accentuato le difficili relazioni tra università e società, rendendo problematica la reciproca comprensione e la possibilità di mantenere aperti canali di comunicazione. Un esempio significativo di tali dinamiche è offerto dal moltiplicarsi delle denunce provenienti dall’opinione pubblica in relazione alla drammatica crisi delle agenzie educative, e quindi anche dell’università, e degli appelli affinché la formazione non si riduca a trasmissione di saperi, ad attività di «burocrazia intellettuale», a «somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma recuperi la “lezione”, l’attività didattica, come occasione per «aprire un mondo», come «tempo di un vero incontro» (M. Recalcati, L’ora di lezione cit., pp. 7-8). In altre parole, gli auspici sono rivolti soprattutto ai docenti affinché si riapproprino della loro insostituibile funzione educatrice, affinché tornino a svolgere il ruolo della «levatrice socratica» invece del «burocrate che reitera parole risapute e moltiplica carte già compilate da altri», affinché smettano di «considerare la testa di “chi non sa” come un vaso da intasare, un sacco da riempire» e riprendano a pensarle come «candela da accendere o catasta di legna che attende una fiammella per incominciare a bruciare» (G. Zagrebelsky, La lezione cit., pp. 31, 48).
Tuttavia, drammaticamente, tali accorate esortazioni restano completamente fuori dall’università, incapaci di scalfire una cittadella arroccata dietro indici bibliometrici e altri misuratori scientifici, ritenuti non meritevoli di contaminare confronti interni tutti incentrati su distribuzione delle risorse e progressioni di carriera, estranei a docenti affannati a inseguire l’ennesima pubblicazione in “fascia a”. Sicché chi tenta di porre il problema della smarrita centralità della funzione educatrice dei professori universitari, chi prova a ricordare che un’ora di lezione può «cambiare la vita» (M. Recalcati, L’ora di lezione cit., p. 8), che «una sola ora di lezione è un dono di lunga durata» (G. Zagrebelsky, La lezione cit., p. 103), è visto alla stregua di poeti in vena di nostalgia, di “anime belle” fuori dalla realtà.