Chiara Serani, forza linguistica e sequenze insondabili

Nei "Dialoghi dalla sedia" ogni punto si annoda a un altro in sequenze insondabili quanto intime se non disturbanti, scabrose o consapevoli del gioco della vita

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Sono seduta su una sedia, la nostra. Sono nuda. Accanto a me, su un tavolino con pianta da appartamento in vaso di ceramica a pois, una gabbietta di pappagallini inseparabili. Sono morti. Stecchiti. Caput. Ai miei piedi, filo di nylon da pesca e spille da balia. Li raccolgo, poi apro la gabbietta. I pappagallini sono freddi, ma non ancora del tutto rigidi. Hanno il capo inclinato in avanti. Faccio loro un cappio intorno al collo, poi inserisco il filo negli occhielli di due delle spille, una alla volta, e ve le annodo. Vivrai ma penzolando. Passo le spille infilate attraverso i miei lobi forati, prima il destro, poi il sinistro. Le chiudo. Me ne sto lì coi pappagallini appesi alle orecchie. Chiara Serani, Dialoghi Della Sedia, Azioni a più voci, Anterem, pagg. 65.

Con un opuscolo d’intensa riflessione critica di Giorgio Bonaccini inserito sul retro della quarta di copertina. Si tratta di poesia, meglio precisarlo subito. E la raccolta si aggiudica il Premio Lorenzo Montano, Trentaseiesima edizione.

Un’opera dall’assoluta forza linguistica e dall’incontrovertibile partitura visiva. Si è alla presenza di originali e attendibili quadri viventi in dialogo con un linguaggio serrato e un’oggettualità che ricama dimensioni performative e teatrali, stravaganze e movimenti metodici a dir poco esemplari, oppure ossessivi. I richiami alla storia dell’arte o della fotografia sono essenziali e molteplici. Non è facile liberarsi dalla storia né dalle consuetudini. “Il violino di Ingres” di Man Ray. “Nude on Coca Cola Chair” di Erwin Blomenfeld. Ma penso anche a Gina Pane o alla più toccante Marina Abramovic. E si viene così con un gesto, non credo arbitrario, all’emblema sedia per eccellenza, quella di Joseph Kosuth che apre alle più pure definizioni di ciò che saranno le “investigazioni” dell’arte. Un concettualismo che farà dell’idea identitaria un asse fondamentale delle sperimentazioni artistiche in ambito formale ma anche linguistico. L’artista, il poeta esplora le possibilità dell’arte come condizioni di conoscenza e impellenza, evenienze di strutture o processi invisibili. In questa raccolta, ne abbiamo un’evidenza estrema nell’uso di una costruzione ridondante che fa della sedia l’appoggio di un’ostinazione a rappresentare una “parola” che è voce interiore e canto.

Il richiamo a Leopardi, Canto notturno di una seggiola errante, è esplicito di un’ironia e di un corpo balbettante, errabondo e altrimenti mentale. Esercitazione combinatoria e di linguaggio nella “fede” che esista un senso, diversamente a che scopo tentare di tradurre un’illimitata foggia di segni: “Sono seduta su una sedia, la mia. Sono nuda. Sulla testa, in equilibrio, un pezzo di legno dai bordi frastagliati e acuminati. Sopra il legno, una grossa boccia di vetro piena d’acqua e con un grosso pesce”. Simbolismo sacro ma anche stabilità. Episteme. Ciò che sta su contro ogni rovesciamento. “Sono seduta su una sedia, leggermente di lato perché alla sinistra c’è un uovo. Sono nuda, ma ho una mitra papale sulla testa, in grembo un libro. Covo la schiusa”.

Tutto è agito e descritto come un fare necessario e distinto. Ogni punto si annoda a un altro in sequenze insondabili quanto intime se non disturbanti, scabrose, efferate eppure consapevoli del mirabolante gioco della vita, del linguaggio e dell’immobilità del mondo. “Sono seduta su una sedia. Sono nuda. Davanti a me, meticolosamente apparecchiati su un tavolone coperto da un telo di lino a quadretti bianchi e rossi, settantadue oggetti. Appeso sopra il tavolo, un cartello dice: “Non toccare!”. Come se la verità vivesse in una negazione. Come se il negativo di un gesto, di una voce, di un ordine fosse il viso aperto di una rettificante luce. Così che tutto, quel nominare pedissequo di oggetti e azioni, diventa quel niente la cui sagoma è tracciata libera sul corpo dell’immagine. Corpo del martirio e corpo della poesia.

Metafisica di un’oggettualità tonale, dove il richiamo a Morandi si rivela come un’elezione di percezioni appena variate, sfumate nella gradazione delle velature e della nominazione. Di contrasto, la sedia diventa qualcos’altro. “Una sedia non è una sedia è una sedia”. Non la lezione di Magritte, bensì il suo superamento in qualcosa di più essenziale: l’unità dell’Uno. Tuttavia, bisogna dar ragione a Bonaccini quando scrive che il testo, la poesia, ha più immaginazione di noi. Ciò significa che quest’opera si apre alla comprensione senza essere sfiorata dal senso ma dalla sua eccedenza. È il farsi scrittura della parola, forse, che si attacca al corpo. E il corpo alla sedia. Liberarsi nella parola, di là dalle immagini che essa suscita, è il perturbante motivo per cui essa continui a suscitare fede. Così che anche il più rigoroso o astruso dei linguaggi possa riposare nella sua ineffabile o indicibile natura. Come scrive la Serani, il più bel gioco del mondo.

[Chiara Serani, Dialoghi Della Sedia, Azioni a più voci, Anterem, pagg. 65]

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