Carmen Gallo, i luoghi e le parole-rifugio del poeta

Incontro con la poetessa che è docente universitaria di lingua inglese e due anni fa ha tradotto "La terra devastata" di T. S. Eliot

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La rubrica “Lo specchio del poeta” è un appuntamento con cadenza settimanale curato dal professore Vincenzo Salerno e dedicato alla poesia italiana contemporanea attraverso la presentazione di un autore ‘raccontato’ dai suoi stessi versi. Un tentativo di ritratto lirico autobiografico, scandito seguendo un ordine rigorosamente cronologico dei testi proposti e che intende cogliere – dando ‘voce’ al poeta ospite – i tratti più caratteristici della sua cifra stilistica e della sua ‘materia’ poetica.


Carmen Gallo insegna Letteratura inglese all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha curato l’edizione di Tutto è vero, o Enrico VIII di Shakespeare (2017) e ha pubblicato L’altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese (2018). Ha all’attivo due libri di poesia: Appartamenti o stanze (2016) e Le fuggitive (2020). Ha tradotto La terra devastata di T.S. Eliot (2021).

Come avere paura degli occhi
come sapere che tutte le bocche
professeranno il falso
e per prima la tua
dirà cose che non vuole
vedrà cose che non sa
ma il vero più del falso
resta nelle parole che non riconosco
perché non hanno la tua forma
la calce bianca dei tuoi sensi
deformati per l’occasione
parole annerite, scartavetrate
cercano rifugio tra le mie
ma non trovano
che una pace fatta di spilli
di mura che non tengono
di soldati che non parlano la tua lingua

*

Affidare al soffitto
i nervi stretti nelle gambe
le caviglie da incorniciare
vedersele rubare
per un salto oltre l’asfalto
nel ricovero sbiadito
la tua voce separata
non aveva mai fretta
l’eco rincorreva
solo me, che non avevo che questo
di tempo finito
e la stanza in fondo alla strada
e noi stipati negli angoli degli occhi
il freddo ci segnava le labbra
tra risa di altre schiene schierate
io mi tenevo le scapole
a braccia incrociate
e ritentavo il passo, l’avanzare
tu restavi, immobile e incompleto
a rinominare la mia fuga scomposta
a raccontare il male come se fosse vero
con le mani strette sugli occhi
ho difeso tutto ciò che esiste
ma tu ancora tagliavi
più a fondo della luce

[Da Paura degli occhi, L’Arcolaio, 2014]

**

gli altri stanno in piedi a guardare

finché resto qui a parlare
nulla o poco può succedere
le pareti più delle voci mi costringono
in questa stanza dove niente
mi somiglia e niente mi riguarda
le donne spingono e spingono
gli uomini stanno in piedi a guardare
io e te dove andiamo
dall’altra parte dicono non c’è niente
aggrapparsi ai corpi, sopravvivere
anche gli animali si spostano
migrano dove si gela meno
la mano preme forte contro lo sterno
fa uscire l’aria, fa
allargare il petto sull’asfalto
la strada sterrata, la fine del selciato
ancora la caduta più del salto

scompaiono

un nuovo ordine di calamità
che invada lento le case
colpisca i piedi dei tavoli, poi le sedie
sollevi mattonelle un millimetro al giorno
solo dalle schegge, minuscole, sul pavimento
indovineresti il taglio vivo smarginato
ancora estranea io, a ogni assestamento
di giorno diresti che è solo vento
tutti i vetri che ci parlano
ma nella notte non si contano
le montagne che vedevi e che di colpo
scompaiono

[Da Appartamenti o stanze, D’if, 2017]

**

Tornare in superficie
come bocche di colpo spalancate
animali finalmente anfibi.
Dimostrare di avere imparato
il doppio respiro, a stare e restare
nello spazio indiviso dove le cose
accadono e basta. In questo gioco
chi si cerca e chi si nasconde
hanno la stessa faccia.
La paura costringe a forme di vita
innaturali, costringe a stare
nella durata di un altro.
Impossibile prendere aria.
Restituire la paura, lasciarla
sulla soglia di casa e dire
puoi tenerla o nasconderla in giardino
prima che il tempo e lo spazio propaghino
la sua forza. È novembre. Ho trentasei anni.
Mi porto dietro tutti i miei luoghi.
Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno.

[da Le fuggitive, Aragno, 2020]

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