La prima stesura di questo splendido libro è del 1777, Vittorio Alfieri gli dà definitiva forma nel 1785. Sono gli anni che fanno da vestibolo alla prima lucente rivoluzione europea che, come la seconda, si risolverà nell’abominio di una dittatura: mostrando come gli uomini non sappiano uscir fuori da se stessi se non per orrendamente ricadere nella condizione da cui sono partiti.
“Della tirannide” c’insegna cose che abbiamo dimenticato, forse mai saputo, che noi stessi incongruamente esaltiamo col nostro comportamento ambiguo, falso, ipocritamente velato: sempre pronti ad accettare i più laidi compromessi per trarne qualche miserabile vantaggio. Viviamo con un tiranno nella nostra terra e fingiamo sdegno (per le liste civiche che nascondo e umiliano il partito di riferimento), inorridiamo – ma solo per qualche attimo – per i listini bloccati che violentano la Costituzione, e intanto giochiamo a nascondino con le mille facce del tiranno che governa la nostra Regione, continua a fare il Podestà, si veste in orbace, e grida a stesso la propria furia.
E non ci si venga a dire che è stato eletto democraticamente. Questa pacificata risposta l’ha già smontata e resa inservibile, Vittorio Alfieri. Leggiamo attentamente: “Tirannide indistintamente appellare si debba qualunque governo in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle: od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità”.
Le discutibili elezioni non proteggono i cittadini dal tiranno, subitaneo gregge marchiato a fuoco dal padrone.
Chiamare democratico uno stato politico solo perché permetta di votare, è un turpe inganno.
La tirannide contamina, corrompe, e i corrotti hanno i pensieri del corruttore. Ha scritto Vittorio Alfieri: ” Chiunque riceve favori dal tiranno suol essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai peggiore di lui”: immaginate una città sottoposta a un tiranno, con il suo bruciare di odio, come un incendio.