Vittime e vittimari tra l’Italia e il Río de la Plata

Documentiamo una catena di fughe e coperture, di una gravità enorme perché dà continuità e ufficialità alla politica del silenzio e dell’indifferenza che ha contraddistinto l'azione dei ‘poteri forti’ italiani nei confronti di quelle dittature. Situaziine gravissima sin da quando non fu accolta la richiesta di Adriano Panatta e compagni di boicottare la finale della Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet  e, nel 1978, Licio Gelli sedeva a fianco del dittatore Videla alla finale del Campionato Mondiale di calcio. In quel tempo molte testate giornalistiche richiamavano i cronisti troppo ‘impegnati’ e l’ambasciata italiana rifiutava il diritto d’asilo a centinaia di richiedenti. I casi Riverberi, Troccoli e Malatto

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La lingua è senz’altro una struttura in movimento, un corpus vivo ancorato nella realtà e nella cultura di chi la usa. Concetto chiarissimo a chi si accinge a operare traduzioni interlinguistiche per le quali molte volte si è obbligati a riconoscere che ‘manca la parola’…  e se la parola manca, è perché nella realtà e nella cultura di arrivo manca il referente a cui quella parola si riferisce, o non si è sentita ancora la necessità di una parola ‘nuova’ per designarlo.  Si può ricorrere allora a prestiti dall’altra lingua, a giri di parola, a slittamenti semantici che ci aiutino ad ‘avvicinarci’ a quel ‘qualcosa’…

Tocchiamo con mano il problema quando ci imbattiamo nel linguaggio della violenza di Stato nell’America di lingua spagnola dove neologismi, recuperi di parole in disuso, slittamenti semantici e risignificazioni, adottati in un primo tempo dagli ‘addetti ai lavori’, si sono estesi a tutta la popolazione e hanno travalicato i confini geografici e linguistici per giungere sino a noi…

Due esempi sono sufficienti per inquadrare il tema e introdurre un discorso sul coinvolgimento di cittadini italiani nel terrorismo di Stato degli anni ’70 e ’80 del ‘900 nel Río de la Plata, dove una numerosissima emigrazione italiana dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri si è configurata come parte cospicua della identità e della cultura di quei paesi. E sicuramente ci fa inorridire il pensiero che in paesi così simili al nostro siano avvenuti – dopo che avevamo considerato il nazifascismo un errore della Storia unico e irripetibile -, stragi di stato, deportazioni e annientamento di massa del nemico: i ‘voli della morte’ come i forni crematori, per distruggere i ‘corpi del reato’, cioè la memoria …

Desaparecer, verbo intransitivo della lingua spagnola equivalente al nostro scomparire: è scomparso un portafogli, un bambino, ecc. ecc. Ma negli anni ’70 è diventato transitivo (io ‘scompaio’ un portafogli, un bambino) per indicare l’azione con cui gruppi armati paramilitari hanno sequestrato migliaia di persone, le hanno portate in centri clandestini e poi hanno desaparecido (fatto scomparire) ogni traccia di questo percorso, dal sequestro alla tortura al cadavere. Il participio desaparecido si è sostantivato e ha travalicato ogni confine, e conosciuta è la definizione che ne diede il generale Videla, della Junta Militar argentina di quegli anni, in una intervista del 1979: “Per quanto riguarda la persona desaparecida, finché esiste come tale, è una incognita. Se dovesse apparire, avrebbe un trattamento X, e se l’apparizione ne confermasse la morte, avrebbe un trattamento Z. Ma finché è desaparecido non può avere alcun trattamento speciale, è una incognita, è un desaparecido, non ha un’entità, non è… né vivo né morto, è desaparecido”. Victimario. Enciclopedie e dizionari italiani non hanno alcun dubbio: è il nome generico che si dava a Roma al personale subalterno addetto all’azione sacrificale. Nel Wikipedia italiano non esiste la scheda.

Il Dizionario della Real Academia spagnola invece mette come primo significato homicida. e solo in seconda battuta il riferimento ai sacrifici umani nell’antica Roma. E Wikipedia di Spagna non ha esitazioni: “Il perpetratore è la persona che infligge un danno a un’altra (che diventa, per opposizione, la vittima dell’azione). Sebbene questo termine possa essere usato per riferirsi a qualsiasi persona responsabile di aver commesso un crimine, è generalmente legato ai concetti del processo di pace, dove è spesso usato al plurale per riferirsi ad attori armati in un Paese, sotto un regime dittatoriale o democratico o in un conflitto armato interno, che hanno commesso crimini terroristici, crimini di guerra o crimini contro l’umanità”. Neanche uno dei più accorsati e affidabili programmi di traduzione online ha esitazioni: victimario si traduce con perpetratore, parola poco usata ma presente nei nostri dizionari.

Questo lungo preambolo mi permette di introdurre il tema che mi interessa trattare: Vittime e vittimari tra l’Italia e i paesi del Río de la Plata.

È doveroso partire dal caso di don Franco Reverberi che ha riportato alla ribalta una realtà spesso dimenticata, taciuta, sottovalutata: il Ministro di Giustizia Nordio  ha bloccato l’estradizione in Argentina di Franco Reverberi, emigrato nel secondo dopoguerra con la sua famiglia dalla provincia di Parma a Mendoza, dove prese i voti e fu cappellano del centro clandestino di tortura e sterminio “Casa Departamental”, uno degli 800 centri clandestini dove gli oppositori venivano detenuti e desaparecidos. Alcuni sopravvissuti hanno raccontato che a volte Reverberi vestiva la divisa militare e assisteva impassibile alle torture tenendo in mano una Bibbia e dicendo che la volontà di Dio era che i torturatori avessero le informazioni che cercavano…

Dopo la fine della dittatura, negli anni Ottanta, Reverberi rimase in Argentina continuando a fare il sacerdote grazie al silenzio e all’oblio imposti dai governi di transizione. Le testimonianze su di lui emersero solo in era kirchneriana e venne formalmente accusato nell’ottobre del 2010 ma non comparì mai in tribunale; nel maggio del 2011 tornò in Italia, a Sorbolo, ufficialmente per un problema di salute che non poteva curare in Argentina.

Una prima richiesta di estradizione venne presentata nel 2012 ma fu respinta dalla giustizia italiana perché il reato di tortura nell’ordinamento italiano non esisteva; nel luglio 2017 è stato introdotto il reato di tortura (Articolo 613 bis Codice Penale), e nel 2021 l’Argentina ha presentato un’altra richiesta di estradizione, approvata dalla Corte d’Appello di Bologna. La difesa di Reverberi ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione, ricorso respinto nell’ottobre del 2023. L’estradizione di Reverberi doveva infine essere confermata da Nordio, che però non l’ha fatto motivando il rifiuto con l’«età estremamente avanzata» del sacerdote, le sue «patologie cardiologiche», «lo stress psicologico». Pare che nella chiesa di Sorbolo tutti i pomeriggi alle 18 don Reverberi affianca nella messa il parroco del paese, dà la comunione, sposa le coppie e battezza i neonati.

Questo è solo l’ultimo caso di una catena di fughe e coperture, di una gravità enorme perché dà continuità e ufficialità alla politica del silenzio e dell’indifferenza – parola sacrosanta diventata emblema dell’impegno della Senatrice a vita Liliana Segre – che ha contraddistinto la politica e i ‘poteri forti’ italiani nei confronti di quelle dittature, sin da quando non fu accolta la richiesta di Adriano Panatta e compagni di boicottare la finale della Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet  e, nel 1978, Licio Gelli sedeva a fianco del dittatore Videla alla finale del Campionato Mondiale di calcio, molte testate giornalistiche richiamavano i cronisti troppo ‘impegnati’ e l’ambasciata italiana rifiutava il diritto d’asilo a centinaia di richiedenti.

Situazione simile, ma con percorso ed esito diversi, presenta il caso di Jorge Néstor Troccoli, nato nel Cilento ed emigrato con la famiglia nel dopoguerra in Uruguay, ex-capo dei servizi segreti dei Fucilieri Navali, il FUSNA, e responsabile di una vasta operazione che tra il 1977 e il 1978 ha portato, in collaborazione con la famigerata ESMA di Buenos Aires, alla desaparición di oltre 30 uruguayani, tra cui almeno 7 con cittadinanza anche italiana, che si erano rifugiati in Argentina. È anche autore di un libro, La ira de Leviatán: del método de la furia a la búsqueda de la paz (reperibile in una pessima traduzione in file:///C:/Users/Utente/Downloads/LiradiLeviathan.pdf), pubblicato negli anni ’80, in cui riconosce di essere stato autore di torture e di azioni repressive verso cittadini uruguaiani nell’ambito di una guerra senza esclusioni di colpi tra due settori antagonisti: naturalmente le Forze Armate “sono un’istituzione di eccezione differenziata dalla società civile, cui è affidata la custodia dei beni materiali e spirituali della Nazione” e per difenderli bisogna ricorrere ad ogni mezzo: “La tortura è tutto, […] è un mezzo per raggiungere l’obiettivo. Se sei in una guerra, la cosa principale è l’obiettivo, sai che se cadi in una guerra, ti tortureranno, e noi eravamo in guerra”. Si rifugia in Italia, e malgrado la condanna in un processo a Montevideo, per un ritardo della richiesta di estradizione – l’ambasciatore uruguaiano Carlos Abin ne fu ritenuto responsabile – continuò a vivere indisturbato nel Cilento.

Nel 2015 il pm Giancarlo Capaldo diede inizio al maxi processo per le vittime italiane delle dittature sudamericane del Plan Condor (l’operazione del 1975 che impegnava 8 Stati sudamericani a catturare i militanti esiliati tra America Latina, Stati Uniti ed Europa) giacché la legislazione italiana contempla che i delitti commessi contro cittadini italiani siano giudicati in Italia, anche se commessi all’estero. Nel corso del processo di primo grado, nel gennaio del 2017, Troccoli fu assolto per l’assenza del reato di tortura nella nostra legislazione (furono condannati 8 dei 33 imputati: assolti 13 uruguaiani, tra cui Troccoli) ma nel giudizio di appello, poiché nel frattempo era stato incluso il reato di tortura nel nostro Codice Penale, tutti i 27 imputati di Perù, Cile, Bolivia e Uruguay, sono stati condannati al massimo della pena: finalmente Troccoli è stato rinchiuso nel Carcere di Fuorni (Salerno).

Potremmo ancora parlare di Carlos Malatto, argentino attualmente residente in Sicilia, e di vari altri vittimari di origini italiane (si può utilmente vedere il programma Spotlight. I 600 corpi (rainews.it), ma per ora mi fermo qui… In un prossimo intervento, invece,  ricorderò qualcosa delle vittime di quelle dittature perché nostri connazionali sono stati tra i torturatori e i torturati, tra le vittime e i vittimari.

(1 – continua)

 

Rosa Maria Grillo

Già docente di Lingua e Letterature ispanoamericane presso l’Università di Salerno, dirige la rivista “Testi e Linguaggi”, la Collana del Dipartimento di Studi Umanistici “Biblioteca di Studi e Testi” e la collana di narrativa “Mirando al Sur”. Autrice di sei monografie: Racconto spagnolo, 1985, Exiliado de sí mismo, José Bergamín en Uruguay, 1999, Emigrante/Inmigrado. Una doble identidad en el espejo de la literatura uruguaya, 2003, Escribir la Historia, 2010, Cinquecento anni di Civiltà e Barbarie, 2021, Vivere per testimoniare, testimoniare per vivere, 2022, e di saggi pubblicati in Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti, Colombia, Argentina, Paraguay, Uruguay

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