Rocco e i suoi colleghi, tante Lucanie in versi

Pochi altri poeti, di estrazione meridionale, sodali di Sinisgalli, come Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto, oltre Scotellaro, sono riusciti a cantare la propria terra, il Sud d’Italia, come in Lucania. Anche il fiorentino Mario Luzi, visitando nel 1982 i sassi di Matera, non poté fare a meno di dedicare una sua poesia a questa regione

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I poeti Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli: versi così diversi per cantare la stessa Lucania del tempo

Scotellaro, il poeta del mondo contadino (link di collegamento alla “prima puntata”)

II. I poeti della civiltà contadina dall’Italia all’Europa

II.1. Gi Italiani: Sinisgalli, Quasimodo, Gatto, Luzi, Zanzotto

Di provenienza artigianale come Scotellaro, suo padre era calzolaio, è l’altro suo grande corregionale, l’ingegnere-poeta di Montemurro, Leonardo Sinisgalli: il genitore, emigrato in America, faceva il sarto. Scorrendone la biografia intellettuale, dalla giovanile formazione scientifica alla precoce vocazione artistico-letteraria, non vi mancano interessanti passaggi che fanno emergere gli aspetti più squisitamente personali, umani e intimi, della sua natura profonda, radicata sempre alle origini lucane, alla genuina realtà popolare del mondo contadino e artigianale. Pertanto, non poté fare a meno di ricordare quando le signore della buona borghesia di Milano provarono uno choc alla vista del campione «di una lucernetta di latta costruita in serie da uno stagnino lucano», esposto da Elena Pirelli nella sua casa. Lo stagnino di Montemurro si chiamava Giacinto Fanuele, della «stirpe dei calderai» lucani. Sinisgalli, infatti, in Una lucerna, una lanterna, un’oliera, pubblicata nel marzo 1953 su «Civiltà delle macchine» e ora anche nell’Antologia della rivista (1953-1957), a cura di Vanni Scheiwiller, uscita nel 1989 a Milano nei Libri Scheiwiller, aveva posto ad epigrafe: «Alla grande tesi dell’Industrial design questi tre oggetti tagliati dallo stagnino di un vecchio borgo italiota portano un modesto ma preciso contributo storico». L’ipotesi sinisgalliana si fondava, infatti, su un recupero dell’esperienza artigianale, su una riproposizione della componente umanizzante nella macchina della grande industria. Recupero, quindi, non sostituzione: sono ben lungi da lui uno sterile rimpianto del passato, un ripudio della grande rivoluzione che «ha trasformato le botteghe in officine», un «moralismo moderno di tipo romantico-conservatore». Non vi è «la pretesa di fermare la storia» ˗ sostiene Franco Vitelli, in Il Granchio e l’Aragosta. Studi ai confini della letteratura, un libro edito nel 2003 dalla Pensa MultiMedia di Lecce ˗ perché «Sinisgalli, che proviene da zona di fiorente attività artigianale e visse al Nord il trapasso del dopoguerra, assorbe il dualismo presente in Calvino, per cui l’artigianato assume valore sia come fatto di natura socio-economica che nei risvolti compositivi dell’opera d’arte». Così pure, la concezione sinisgalliana del design come antidoto alla retorica e all’improvvisazione viene ribadita più volte e consiste nel rifiutare il vago e l’ineffabile, l’incantare e il trascinare, per capire e riferire, attraverso un linguaggio logico, razionale, dimostrativo, manovrando penna o pennello come se fossero una tenaglia o una falce.

La Lucania di Scotellaro non è tuttavia quella di Sinisgalli, che l’associava nei ricordi alla stagione della sua infanzia, proiettandola in una dimensione mitico-arcaica, ma amandola profondamente, come dimostra la scelta di composizioni trascritte e tradotte dai dialetti lucani e ora raccolte nella sezione, L’albero delle rose, di La vigna vecchia, in Tutte le poesie, curate nel 2020 da Vitelli per la Mondadori; ma non va dimenticata l’analoga operazione scotellariana dei Canti popolari, ora in TO 277-287. Alle radici della Lucania, invece, Scotellaro, sentendola più concreta e vitale, si sente avvinto, fino a identificarvisi: «Sradicarmi? la terra mi tiene / e la tempesta se viene / mi trova pronto» (La terra mi tiene, TO (MeR) 132). Eppure, ritornando sulla “questione ecologica”, come per Scotellaro, va precisato che anche Sinisgalli «non si sottrae, introducendo del pari “una estetica ecologica”» e rendendo «palese la difficoltà per l’affermazione di una coscienza ecologica in una società che non riesce a trovare equilibrio tra spreco e rinuncia» (ancora Vitelli, in Un «designer» della poesia, introduzione a Tutte le poesie). Non possiamo non riconoscere in questi versi di Sinisgalli, che si distendono con metro lungo e ampio respiro, si aprono ad abbracciare uno scenario naturale vasto e riconoscibile, uno slancio emotivo e allo stesso tempo un’indubbia capacità di ricostruire poeticamente l’identità inconfondibile della propria terra:

Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Pochi altri poeti, di estrazione meridionale, sodali di Sinisgalli, come Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto, oltre Scotellaro, sono riusciti a cantare la propria terra, il Sud d’Italia, come in Lucania, di cui abbiamo ora letto la prima lassa. Per il Quasimodo del Lamento per il Sud di La vita non è sogno (1946-1948), ora in Tutte le poesie pubblicate da Carlangelo Mauro nel 2020 con la Mondadori, «l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria» e il suo Meridione «è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria, / è stanco di solitudine, stanco di catene […] Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti, / costringono i cavalli sotto coltri di stelle, / mangiano fiori d’acacia»; mentre Gatto non solo narra, in Alla mia terra di Il capo sulla neve (1943-1947), La storia delle vittime («Io so che nulla potrà mutare / il cuore della mia gente, / il pianto dentro i muri nella sera, / i paesi violati da un respiro / di vento appena»), ma nelle Rime di viaggio per la terra dipinta (1968-1969), ora in Tutte le poesie, curate nel 2017 da Silvio Ramat per Mondadori, evoca anche nei colori dei suoi acquerelli e nei versi di una breve e intensa lirica, Paese lucano, con la memoria rivolta agli amici Rocco e Leonardo, quello che per lui, come per loro, era un luogo dell’anima:

Per una cattedrale la montagna
lucana con la povertà d’un astro,
dal grigio al bianco a sé traendo lagna
di polvere e di pietra, ha fatto incastro

d’una città sudario. Nell’effigie
dei muri le sue grandi storie umane
-monotono dolore – d’erbe grigie
e pallide si nutre chi rimane.

Anche il fiorentino Mario Luzi, visitando nel 1982 i sassi di Matera, non poté fare a meno di dedicare una sua poesia a questa regione: In Lucania, in Per il battesimo dei nostri frammenti; se ne menzionano i primi versi: «In Lucania / in quella cappadocia di dolori, / in quei monti calvari / di freddo e di vigilia // mi ferì / sole improvviso / quel sole, mi colpì duro col taglio / della sua obliquità, // m’incise / a fondo i pensieri […]», ora in L’opera poetica, curata nel 1998 da Stefano Verdino per la Mondadori. Un’eco, questa, che oltre il Meridione d’Italia, giunge anche nel Nord, a Pieve di Soligo, dove Andrea Zanzotto ha sempre fatto della Natura il tema portante della sua poesia, denunciando la devastazione perpetrata sulla sua terra, violata e invasa da capannoni che deturpano il paesaggio, che “punge e tra-punge” il soggetto in esso immerso, ma rimanendone a sua volta continuamente ferito ad opera di quello stesso soggetto e, pertanto, il mondo vegetale, picchiettato da mille, diverse erbe, si trasforma in paesaggio incantato, in “mito”, accumulando in maniera progressiva la “nostra storia psichica”. Il poeta vi stabilisce un rapporto fisico e metafisico, recuperando la letterarietà come luogo dell’autentico; restaura vecchie canzoni folkloristiche e il dialetto locale, fornendone una sorta di saga in Filò (1976, poi in Idioma del 1985); introietta un linguaggio delle origini o l’origine del linguaggio, simulando poeticamente l’afasia e il balbettio in La Beltà (1968).

Quello che colpisce è la perfetta sincronia con la produzione poetica di Sinisgalli, Gatto, Quasimodo e Scotellaro, limitatamente agli anni Quaranta, prima menzionata, di un’altra silloge di Zanzotto, Dietro il paesaggio, uscita all’inizio del 1951, con liriche composte tra il 1940 e il 1948, segno che, proprio in quel decennio di complessa trasformazione del nostro Paese, alcuni poeti italiani, appartenenti ad aree geografiche e a culture diverse, misero precocemente al centro della loro ispirazione il tema ecologico. Zanzotto, cerca di colmare il vuoto causato dall’incuria umana di un paesaggio che non esiste più e di proiettarlo, attraverso la trama dei versi e dei ritmi, in un passato-futuro. La seconda delle tre sezioni di questa silloge poetica, intitolata «Sponda al sole», reca in epigrafe un verso di Friedrich Hölderlin, «Ihr teuern Ufer, die mich erzogen einst…» (“O rive care che un tempo mi avete cresciuto…”), di cui non si cita la provenienza, ma si tratta del primo verso della seconda strofa di Die Heimat, “Terra nativa”; il grande lirico tedesco, infatti, afferma di sentirsi «Ein Sohn der Erde», “un figlio della terra”, come traduce Giorgio Vigolo nell’edizione mondadoriana del 1971 delle Poesie. Zanzotto all’attenzione costante per Hölderlin e Leopardi affianca un’influenza del radicalismo stilistico dei surrealisti e ancora, a questa altezza cronologica, dell’estremismo intellettualistico e iperletterario di alcuni ermetici, con un impasto linguistico-sintattico di figure analogiche e costruzioni paratattiche, ma la base semantica dei significati, oltre la sua nota predilezione per i significanti, poggia, se pure mediata da astrazioni emblematiche e metamorfosi del soggetto lirico, sugli elementi ambientali, sull’umanizzazione del paesaggio naturale e rurale, reso tuttavia in maniera non impressionistica, ma metaforica, sulla scansione stagionale di matrice contadina nella cronologia dei testi, dal ciclo primaverile all’estivo sfumante nell’autunno, all’inverno, come attestano alcune componenti realistiche e il “mosaico” della variatio ritmica. A questo quadro d’insieme si collega un esemplare significativo: le prime due delle sei strofe di Perché siamo, una lirica di metrica libera e qualche assonanza, composta nel 1947, poi uscita in Le poesie e prose scelte, curate da Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta nell’edizione mondadoriana del 1999, dove si mostrano in rilievo i luoghi familiari, il cui forte radicamento è reso dall’iterazione anaforica, con al centro la figura della madre, l’immagine del verde particolare dell’erba in novembre, il motivo della dimensione contadina e degli affetti domestici, dello sguardo che si muove dalla pianura alla collina, alla funzione protettiva delle vette alpine innevate (per cui rimane ancora fondamentale il saggio di Franco Fortini, Zanzotto: Dietro il paesaggio, uscito nel giugno 1952 su «Comunità»):

Perché siamo al di qua delle alpi
su questa piccola balza
perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre
ci scalda il sole sulla porta
mamma e figlio sulla porta
noi con gli occhi che il gelo ha consacrati
a vedere tanta luce ed erba

Nelle mattine, se è vero
di tre montagne trasparenti
mi risveglia la neve;
nelle mattine c’è l’orto
che sta in una mano
e non produce che conchiglie,
c’è la cantina delle formiche
c’è il radicchio, diletta risorsa
profusa alle mie dita,
a un vento che non osa disturbarci.

 

2-continua

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