Da Campania felix a Terra dei fuochi

Gli alberi sono invisibili. Ritorniamo alla terra felice delle viti che si abbarbicano e del grano che sembra un tappeto alto

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“Terra dei fuochi. Terra di nessuno” è il tema del convegno, promosso da “Ultimi-Associazione di legalità” fondata dal padre guanelliano don Aniello Manganiello, che si terrà questa mattina a Scampia.  A discutere del tema ci saranno: Giovanni Romano, già assessore all’Ambiente della Regione Campania; Antonello Barretta, direttore generale del ciclo integrato delle acque e dei rifiuti e delle autorizzazioni ambientali della Regione Campania; Pierluigi De Felice, professore del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Salerno; Giacomo Benassai, professore associato di Chirurgia generale presso l’Università degli studi Federico II di Napoli. Dopo i saluti di don Pino Venerito, Superiore dell’Opera Don Guanella di Napoli, introdurranno i lavori il giornalista Andrea Manzi, presidente di Ultimi e Filomeno Caruso, medico e componente del consiglio direttivo dell’Associazione. L’incontro sarà moderato da Silvia Siniscalchi, docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Salerno. Le conclusioni sono affidate a don Aniello Manganiello.

Ospitiamo l’intervento del professore De Felice, relatore al convegno, sul tema “Da Campania felix a Terra dei fuochi”, che riassume il senso dell’incontro di questa mattina.


 

La Campania felix, un tempo terra ferace, dove l’azione delle acque superficiali (Volturno e Regi Lagni) e degli apparati vulcanici del Roccamonfina e del Vesuvio, diedero vita ad un suolo particolarmente ricco, riconosciuto come Piano Campano e poi Terra Laboris, ha rappresentato per secoli un chiaro iconema, dove la dimensione naturale e quella culturale hanno dato vita ad un paesaggio rurale storico di straordinaria bellezza e di preziosa qualità agroalimentare, tanto da richiamare l’attenzione di viaggiatori e di pittori vedutisti.

Jacob Philipp Hackert, La famiglia reale alla mietitura a Carditello (olio su tela, 1791),

Ne è un illustre esempio Goethe, che durante il suo celebre viaggio in Italia rimane colpito dal “Piano di Capua”, dove il “grano” sembra “come un tappeto alto, forse, parecchi palmi e i pioppi che son piantati in fila, co’ rami mozzi fin su e con le viti che vi si abbarbicano”.  Si tratta di una scenografia naturale che suscita l’attenzione anche del pittore tedesco Jacob Philipp Hackert: i suoi dipinti celebrano gli alberi vitati, gli agrumi, i gelsi che colorano e profumano il paesaggio rurale di Terra di Lavoro. Ferdinando IV di Borbone gli commissiona una serie di quadri, tra i quali un dipinto che raffigura la mietitura del grano e la vendemmia a Carditello, uno dei casini reali borbonici dove alle funzioni di delizia si associano quelle economico-produttive: otium e negotium, azienda e villa di delizia, luogo per raccogliere e commercializzare ma anche spazio ludico per praticare la caccia e la corsa dei cavalli.
In questo lembo di territorio vocato alle attività rurali (allevamento, attività casearia, molitoria, canapicoltura) si genera un lento ma inesorabile processo di abbandono, a partire dalla seconda metà del XX secolo, foriero di una perdita di memoria che non riconosce più nei segni impressi nel territorio quegli elementi valoriali, espressione di una narrazione caratterizzata dalla lunga storia della natura e da quella più breve dell’uomo.
Il paesaggio rurale di Terra di Lavoro viene così violato perché dimenticato!
La terra perde le sue funzioni primigenie diventando uno spazio speculativo dove predomina la miope logica degli affari illegali. Questo processo è stato favorito anche dal silente e assordante abbandono dei terreni agricoli (per alcuni spontaneo, per altri forzato) da parte delle comunità che li curavano. Si è così prodotta così una cesura tra collettività e ambiente, sancendo la fine di una biografia collettiva, con la disgiunzione dell’opera dell’uomo da quella della natura, la svalutazione del lavoro, dell’ingegno e della perseveranza del mondo contadino, la perdita di ogni consapevolezza della bellezza e importanza delle risorse naturali, di cui gli alberi sono un emblema.

Jacob Philipp Hackert, La famiglia reale alla vendemmia a Carditello (olio su tela, 1791).

“Gli alberi sono invisibili” – per dirla con Patricia Westerford, protagonista del romanzo Il sussurro del mondo – esprimendo metaforicamente l’alienazione dell’uomo di fronte all’ecosistema, i cui effetti sociali ed economici sono ben visibili e sperimentati dalle popolazioni che insistono sui territori un tempo floridi e oggi desertificati non solo dai fuochi reali ma anche da quelli metaforici, che distruggono il rapporto costitutivo tra uomo e ambiente, natura e cultura, risorse e popolazioni.
Ritornare alla terra, riscoprire il valore del suolo come bene comune, riassegnare un codice identitario alla campagna e ai suoi prodotti diventa allora, per più motivi, un esercizio necessario e sostenibile: protegge il paesaggio, garantisce la sicurezza alimentare, migliora la nutrizione, promuove un’agricoltura biologica che impatta meno l’ambiente e tutela maggiormente quelle comunità che vivono, appunto, di agricoltura, non per nulla chiamata “familiare”.
Il monito che Margherita Yourcenar fa dire ad Adriano – “nessuno ha diritto di trattare la terra come l’avaro il suo gruzzolo d’oro” – esemplifica in modo inequivocabile il nuovo rapporto che si deve instaurare tra la terra e l’uomo: bisogna necessariamente curarla e chi non la cura, dice Adriano, deve andare via per cedere il posto a chi di quella terra vuole fare un lembo colorato e profumato, vivendo in equilibrio ecosistemico con gli altri componenti della natura e mettendo da parte ogni eccesso di un antropocentrismo (auto)distruttivo.

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