La Terra dei fuochi in Campania: geografia di una catastrofe e i suoi possibili rimedi

Indifferenza, rapporti fraintesi, mancanza di progettualità. E l'agonia continua

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“Terra dei Fuochi” [TDF] non è un coronimo, ma l’indicazione di una profonda anomalia, causata da uno dei più scellerati crimini ambientali della storia. Il termine compare per la prima volta nel “Rapporto Ecomafia 2003” di Legambiente per denotare un’area compresa tra i comuni di Qualiano, Villaricca e Giugliano (Napoli) devastata da discariche abusive e incendi notturni per la distruzione di rifiuti illegali di ogni tipo, con la dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive e inquinanti. In tale accezione rientra tra i neologismi del vocabolario Treccani online (2013) 1.

L’ambito spaziale di riferimento è situato tra la città di Napoli, il Litorale domitio-flegreo, a nord ovest, l’agro Aversano-Atellano, a nord, l’agro Acerrano-Nolano, a nord-est, e il Vesuviano a sud est (Figura 2).

Figura 1. I comuni ricadenti nella TDF secondo le Direttive Interministeriali del 23.12.2013, del 16.04.2014 e del 10.12.2015. Fonte: Fonte: ARPAC (https://www.arpacampania.it/terra-dei-fuochi).

Più precisamente l’attuale perimetrazione delimita una superficie di circa 1.443 km2 corrispondente a quasi il 37% del territorio delle province di Napoli e Caserta (poco più di 3.830 km2: Tabella 2) e al 10% del territorio della Campania (esteso per 13.590 km2). Questa demarcazione è abbastanza recente, giacché il numero dei comuni interessati dal fenomeno nel corso degli anni si è ampliato: dai 57 indicati dalla Direttiva Ministeriale del 23.12.2013 2 si è passati agli 88 della DM del 16.04.2014 3 fino ai 90 di quella del 10.12.2015 4, di cui 56 nella provincia di Napoli e 34 nella provincia di Caserta (Tabella 1 e Figura 1).

Allo stato attuale, secondo la mappatura dei luoghi contaminati riportata dal Piano Regionale di Bonifica  della Campania nelle aree agricole dei 90 comuni inclusi nella TDF ci sono 488 siti da indagare (per un totale di circa 17,47 km2), contraddistinti da vari livelli di rischio, relativi alla presenza più o meno accentuata di concentrazioni di inquinanti (secondo i parametri fissati dal D. Lgs. 152/2006, parte IV) 5.

Una seconda mappatura realizzata dal Roan (Reparto operativo aeronavale) della Guardia di finanza e dal Consorzio universitario Benecon, su richiesta della prefettura di Napoli, ha tuttavia evidenziato che, nel frattempo, gli sversamenti abusivi non si sono fermati: i rilievi dall’alto, compiuti con decine di voli e centinaia di sofisticati sensori, «mostrano che i siti sensibili restano sempre gli stessi e che in molti casi i medesimi siti bonificati sono poi oggetto di nuovi sversamenti. Dal 2011 al 2021 attraverso i sorvoli sono state individuate 1.321 anomalie, indicative di siti interessati da roghi o smaltimenti illeciti. Sono state localizzate 509 microdiscariche in provincia di Caserta e 73 sversatoi nei comuni di Ercolano e Torre del Greco. Tra il 2017 e il 2019 tra Afragola, Acerra e Giugliano in Campania sono state riscontrate 409 anomalie» (Ruggiero, 2021).

È dunque arduo stabilire con certezza quanti siano realmente i siti da bonificare nell’attuale perimetro della TDF, vista la costante variazione delle stime, il prolungarsi delle azioni di sversamento illegale e la necessità di un monitoraggio preliminare costante e accurato. A fare da guida nella ricerca ci sono al momento solo i documenti ufficiali della Regione Campania e dell’Agenzia Regionale Protezione Ambientale Campania (ARPAC), a cui in questo contributo fa riferimento.

Da Terra di Lavoro a Terra dei Fuochi

Dal punto di vista geografico-storico, la provincia di Caserta, già Terra di Lavoro olim Campania Felix (Figura 1.bis) includeva un’area molto più ampia – in parte annessa alla provincia di Napoli dopo la Seconda guerra mondiale – valorizzata in epoca borbonica dalla trasformazione in polo di sviluppo di centri agricoli innovativi e attività manifatturiere di eccellenza (Conti, 2012)6.

Figura 1. bis. Giovanni Antonio Magini (1555-1617), Terra di Lavoro olim Campania felix, Bologna, 1620 (pubblicata postuma da Fabio Magini).

Considerata la persistenza plurisecolare di un genere di vita fondato sull’agricoltura, sull’allevamento e sulle manifatture, se in questo territorio il legame costitutivo tra uomini ed elementi naturali si è spezzato, la causa non può dunque essere solo di origine delinquenziale. Gli intrecci fra imprenditoria, politica e criminalità organizzata si alternano difatti con i casi di imprenditori o soggetti privati che hanno agito illecitamente nel settore senza le complicità o il sostegno della camorra (Camera dei deputati, 2018). La questione è quindi più ampia e affonda le radici in politiche di sviluppo fondate su una visione funzionale dello spazio, il cui patrimonio naturale, storico e identitario, a partire dalla ricostruzione post-bellica, è stato subordinato alla logica del profitto e del valore di scambio. Anche l’agricoltura è stata inglobata in questo sistema che ha prodotto «un processo di contaminazione e di inquinamento delle campagne dovuto all’impiego intensivo di concimi chimici, diserbanti, pesticidi e ogni genere di prodotti fortemente dannosi non solo per le capacità riproduttive dei suoli, ma anche per la salute umana» (Corona, Sciarrone, 2012).

Se questo cambiamento ha interessato le colture delle pianure italiane tout court, nel caso di quelle del Napoletano e del Casertano è stato ancora più devastante nella sua brutale rapidità, stravolgendo un tessuto territoriale che, come osserva Di Gennaro (2014), a metà ‘900 era ancora rurale e conservava una totale integrità degli assetti agronomici, aziendali, produttivi, paesaggistici, confermata dalla comparazione tra le descrizioni di Johann Wolfang Goethe e Giuseppe Maria Galanti (fra XVIII e XIX secolo) con quelle di Guido Piovene (1957) e Aldo Sestini (1963).

Dal punto di vista delle iniziative pubbliche, a modificare nettamente la direzione di sviluppo di questo territorio, dopo le bonifiche 7, è l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (legge n. 646 del 10.08.1950), il cui intervento straordinario, a partire dalla seconda fase (1957-80), promuove una politica di industrializzazione che squalifica la funzione delle zone agricole, trasformandole in spazi anonimi e privi di valore. Si afferma così un nuovo paradigma di sviluppo, fondato sul binomio città-industria, che nel corso degli anni, dopo le prime due fasi (concentrazione urbana e sub-urbanizzazione), con il passaggio dal modello fordista a quello “just in time”, vede imprese e residenti trasferirsi in centri minori (decentramento), originando la formazione di vaste aree metropolitane.

A livello internazionale questa trasformazione vede sullo sfondo la caduta del muro di Berlino e l’apertura dei mercati su scala globale, favorita da una modalità produttiva rinnovata e fondata sulle nuove tecnologie. In Campania, tuttavia, il cambiamento non deriva da una modernizzazione del circuito produttivo industriale, né dalla ricerca di una migliore qualità urbana degli spazi residenziali da parte di popolazione e imprese; riflette invece la trasmigrazione forzata dagli effetti di congestione delle aree urbane, con un proliferare disordinato verso aree periurbane e la realizzazione di un continuum urbano che ne ha dilatato i confini, fino a far assumere alle maggiori città meridionali le dimensioni di aree metropolitane. Ad agire su questo versante è già il terremoto del 1980, che accelera gli spostamenti interni della popolazione e delle imprese produttive dal centro verso le aree periferiche: Napoli e i centri vesuviani perdono così abitanti, mentre si afferma «la crescita di comuni oggi parte dei terreni investiti dal fenomeno della Terra dei Fuochi (Giugliano, Mugnano, Quarto, Melito, Sant’Antimo, Acerra, Villaricca, Afragola)» (Flora, 2015).

Figura 2. L’area dei comuni ricadenti nella TDF (perimetrata in bianco) comparata con il cartogramma della densità della popolazione in Campania (2022). Fonte: sovrapposizione fra la delimitazione interministeriale dell’area “TDF” e i dati ISTAT (2022) su Google Earth (elaborazione dell’A.).

L’elevata densità di popolazione che oggi si registra in queste zone (3.786 ab. per km2: Tabella 2 e Figura 2) è quindi diretta conseguenza della grande trasformazione che hanno subito, allorché, subordinata l’agricoltura allo sviluppo industriale, sono state destinate ad accogliere una rete crescente di abitazioni e industrie, con una cementificazione costante, senza soluzione di continuità tra un comune e l’altro, nell’assenza completa di pianificazione paesaggistica e di rispetto verso le loro originarie vocazioni territoriali.

È questo l’esito di un contesto trasformativo rapido e privo di direzione, in cui la speculazione e l’abusivismo edilizio sono divenute pratiche comuni, determinando, in assenza di spazi e servizi condivisi, la violazione sistematica del paesaggio e del territorio nonché la consunzione del senso civico e morale. Una consunzione indubbiamente fomentata anche dalla povertà e marginalità sociale: i dati regionali Istat (2021) attestano che la Campania, con il 22,8% di famiglie in condizioni di povertà, è seconda solo alla Puglia (27,5%), a fronte di una media nazionale dell’11% circa. Analogamente il tasso di disoccupazione delle province di Napoli (23,6%) e Caserta (15,3%), le pone rispettivamente al 14° e 31° posto della classifica nazionale (Istat, 2021). Così, la geografia di aree un tempo caratterizzate da poche grandi città (Napoli e Caserta in primis), una lunga fascia costiera, alcune estese zone pianeggianti di campagna semi-urbanizzata e un ampio versante collinare «è stata letteralmente riscritta da una moltitudine di manufatti solitari. Una distesa di edifici “a bassa densità” che ha inghiottito i vecchi insediamenti del territorio (piccoli e medi centri urbani, aree produttive, quartieri suburbani) e li ha tra loro saldati […], spargendosi lungo le strade e i bordi della campagna, unendo centri urbani un tempo distanti, arrampicandosi lungo i declivi e completando l’edificazione della sua costa» (Boeri, Jodice, 1999). Si tratta di un processo tuttora in corso: il consumo di suolo [c.s.] – per la cui entità la Campania è terza in Italia, dopo Lombardia e Veneto – seguita a crescere. Dal 2006 al 2021 è passato dal 9,9% (1.356,41 Km2) al 10,49% (1.426,25 km2). Il 48% di questo aumento riguarda le province di Caserta (272,38 km2 di c.s.) e, soprattutto, Napoli (406,7 km2 di c.s.), nella quale i comuni interessati dal fenomeno ricadono in parte proprio nella TDF8.

Fra i primi tre, su base regionale, compaiono Arzano (83,3%) e Melito di Napoli (81,2%), mentre, su base nazionale, Giugliano in Campania (26,2%) rientra fra i primi 30 comuni di oltre 100.000 abitanti con più c.s. (S.N.P.A., 2022). Questa alterazione si rivela tanto più devastante proprio in virtù dell’originaria vocazione agricola della TDF che, non a caso, malgrado la caotica urbanizzazione degli ultimi 70 anni, è sede di 7 dei 28 Sistemi Territoriali Rurali della Campania (Regione Campania, 2014) 9, con oltre 25.000 aziende agricole (più del 18% del totale regionale) 10 che, nel corso del tempo, si sono ritrovate a coesistere con sempre più ampi agglomerati industriali. Proprio qui, infatti, in circa 15 km2, si estende una parte rilevante dell’Area di Sviluppo Industriale di Napoli – con i distretti di Nola-Marigliano (68 aziende), Pomigliano d’Arco (40 aziende), Acerra (58 aziende), Caivano (77 aziende), Arzano-Casoria-Frattamaggiore (72 aziende) 11 – e, in circa 8 km2, quella di Caserta – con i distretti di Marcianise-S. Marco (613 aziende) e Aversa Nord (460 aziende) 12 – con una densità molto elevata (più di 134 aziende per km2). Si tratta di imprese attive nei comparti del metalmeccanico (21%), dell’agro-alimentare (18%), dell’elettrico ed elettronico (17%), del tecnologico avanzato (10%), del chimico (5,7%), del tessile (5,6%), degli imballaggi (4,8%), dell’edilizia (4,2%), del calzaturiero (4%), della logistica (3,5%) e, con percentuali inferiori all’1%, della carta, della nautica, dell’aeronautica, della zootecnia, del riciclaggio, del legno e dei mobili, del vetro, della gomma e della plastica (Regione Campania, 2018 [c])13.

È dunque evidente il motivo per cui il 52% della popolazione campana (5.590.681 ab. nel 2022) sia distribuita in queste due province. Tuttavia, dal confronto fra i dati demografici e l’incremento edilizio emerge l’esistenza di una evidente discrepanza: mentre il c.s. nelle due province aumenta, il numero di residenti negli ultimi 16 anni è diminuito. Il dato è lampante per la provincia di Napoli: nel censimento Istat del 1951 conta 2,1 milioni di residenti, in quello del 2006 oltre un milione in più (3.032.336 ab.), laddove nella rilevazione del 2022 ne ha 65.219 in meno (2.967.117) 14.

Eppure, in queste zone si continua a costruire, come evidenziano i dati soprammenzionati, per finalità di certo non legate alle reali esigenze della popolazione. La speculazione edilizia, dunque, non è solo evidente ma è anche l’indizio di una visione distorta dello sviluppo, che antepone la logica del profitto (di natura clientelare o personale) a quella dell’interesse collettivo nella gestione del territorio. Una logica, dunque, profondamente innervata nella mentalità delle classi dirigenti, ma anche di buona parte della popolazione, di cui la TDF finisce con il diventare uno degli esiti più estremi, drammatici e criminali, ma anche del tutto coerenti.

I rifiuti in Campania e la bonifica della TDF: un rapporto frainteso

La questione TDF è stata a lungo associata al problema della crisi gestionale dei rifiuti urbani in Campania, esplosa nel 2008. Su quest’ultima il Governo italiano è a suo tempo intervenuto per la loro rimozione e gestione nell’ambito di un regime ordinario, attraverso la raccolta differenziata imposta agli enti locali, l’allestimento di nuove discariche e l’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra (26.03.2009), in previsione di costruirne altri a Napoli e a Salerno. Con la fine ufficiale dell’emergenza (fissato al 31.12.2009 dalla legge n.123 del 14.07.2008 15), si è tornati in una condizione di apparente normalità. Ma i roghi in Campania sono proseguiti: gli incendi, infatti, non sono la conseguenza di disservizi o anomalie della gestione regolare dei rifiuti, ma servono invece a smaltire quelli speciali e tossici legati a un sistema produttivo illegale fondato, non solo in Campania ma in tutta Italia, sull’evasione fiscale (Marfella, 2020) 16. Il fuoco divampa per lo più nelle ore serali e notturne, spesso con il reclutamento dei residenti nei vicini campi rom, impegnati a recuperare materiali ferrosi e rame oppure a distruggere scarti industriali e di lavorazione prodotti “in nero”.
Se una parte dei rifiuti speciali sono inceneriti, la più sofisticata e perversa tecnica utilizzata per lo smaltimento di quelli più pericolosi è stata quella degli “intombamenti”, vale a dire dell’interramento di materiali inquinanti a molti metri di profondità, così che i suoli e tutto ciò che vi cresce sopra risultino integri agli esami di laboratorio.

La classificazione dei terreni ricadenti nelle zone contaminate realizzata dall’ARPAC (figura 3.a-b) deve quindi considerare non solo l’integrità delle coltivazioni, ma anche quella delle risorse idriche sottostanti 17, visto che gli sversamenti illeciti hanno interessato lo strato profondo dei suoli.

La circostanza è certificata dai dati sulle acque della Campania (Regione Campania, 2019-21) raccolti sin dal 2012 dall’Agenzia Regionale per la protezione ambientale della Toscana (ARPAT) e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che hanno rilevato la presenza di elementi chimici altamente inquinanti e cancerogeni nei Regi Lagni (Marfella, 2020), canali rettilinei che raccolgono le acque piovane e sorgive della pianura a nord di Napoli, portandole da Nola verso Acerra e, quindi, al mare, tra la foce del Volturno e il lago di Patria. I rapporti ufficiali confermano infatti la maggiore incidenza di malattie tumorali nella TDF 18, mentre i dati Istat sulla speranza di vita certificano che da 30 anni la Campania è stabilmente all’ultimo posto tra le regioni d’Italia: qui si vive circa due anni in meno della media nazionale (che è attualmente di oltre 80 anni), con il picco più basso raggiunto proprio dalle province di Caserta (78,61) e Napoli (78,60) (Istat, 2022) 19.

È chiaro dunque che, per progettare la bonifica della TDF, è indispensabile predisporre innanzitutto un modello scientifico di monitoraggio dei siti coinvolti, che il PRB (RC, 2018 [b]) ha articolato in sei fasi. La prima (individuazione) ha preso in esame 74 particelle catastali incluse in 16 comuni della provincia di Napoli (Acerra, Caivano, Camposano, Cicciano, Cimitile, Comiziano, Giugliano in Campania, Grumo Nevano, Nola, Pozzuoli, Qualiano, San Gennaro Vesuviano, San Paolo Bel Sito, San Vitaliano, Saviano, Villaricca) e 12 comuni della provincia di Caserta (Caserta, Castel Volturno, Maddaloni, Mondragone, Orta di Atella, San Marco Evangelista, Roccarainola, San Marco Evangelista, San Nicola La Strada, Santa Maria La Fossa, Succivo, Villa Literno). È stata così pianificata la raccolta di tutti i dati utili attraverso un sistema di catalogazione e un Geoportale condiviso, con la mappatura di tutte le zone interessate da criticità ambientali potenziali o in essere.

La seconda (classificazione) ha previsto l’applicazione del modello scientifico ai dati raccolti per la messa a punto di cinque classi di rischio 20, propedeutiche alla scelta dell’ordine di priorità degli interventi. La terza (indagini) per i terreni individuati e classificati secondo le diverse tipologie di rischio ha comportato un’attività tecnico-analitica da parte dell’ARPAC, dell’ASL e della Guardia Forestale, per accertare i livelli di radioattività dello strato superficiale del suolo, l’eventuale presenza di rifiuti interrati di natura ferrosa, campionare i suoli superficiali, le acque utilizzate per scopi irrigui, i prodotti agricoli/foraggi e di vegetazione spontanea ed effettuare accertamenti visivi volti a individuare l’eventuale presenza di rifiuti sulla superficie dei terreni.

La quarta (valutazione dei risultati delle indagini effettuate sui siti agricoli al 31/12/2017) ha previsto la classificazione dei siti esaminati nelle sopraccitate cinque classi di rischio. La quinta (risultati) ha certificato per tutti i terreni esaminati l’assenza di valori anomali di radioattività dello strato superficiale del suolo, mentre ha riscontrato la presenza di materiale ferroso interrato in 28 terreni agricoli; dalle indagini chimico-fisiche sui terreni è emersa inoltre la presenza prevalente di diossine e IPA, inquinanti legati ai fenomeni di combustione, e di alcuni metalli pesanti; per quanto riguarda i prodotti agricoli destinati all’alimentazione umana, nessuno di essi è risultato non conforme ai limiti normativi, mentre in cinque campioni di vegetazione spontanea sono state riscontrate quattro difformità e un superamento del livello di azione per le diossine.

La sesta fase ha infine evidenziato 67 terreni agricoli non utilizzabili per la produzione agroalimentare o silvo-pastorale nei comuni di Acerra (67.944 mq), Caivano (76.693 mq), Giugliano in Campania (6.629 mq), San Gennaro Vesuviano (1.371 mq), Santa Maria La Fossa (10.337 mq), Saviano (3.730 mq), Succivo (11.281 mq), Villa Literno (122.862 mq), per un totale di circa 0,3 km2 (300.847 mq), corrispondenti al 12,5% del totale classificato. Il PRB (RC, 2018 [b]) ha quindi sottolineato la necessità di completare il monitoraggio nelle 74 particelle catastali individuate, rimuovendo i rifiuti e analizzando le aree di sedime (38% dei casi), effettuando una caratterizzazione ambientale ai sensi del Decreto legislativo 152/06 21 (nel 74% dei casi), svolgendo ulteriori indagini per confermare o meno la presenza di rifiuti (66% dei casi), estendendole alle particelle confinanti.

Più di recente l’ARPAC (2021 [a], [b], [c]), sulla base di Decreti Ministeriali pubblicati tra il 2015 e il 2021 22 , ha condotto ulteriori indagini tecniche (tuttora in corso) per l’indicazione dei terreni da interdire alla produzione agroalimentare e da destinare esclusivamente a colture diverse in considerazione delle capacità fitodepurative, oppure solo a determinate produzioni agroalimentari. I risultati riguardano in particolare i terreni agricoli di due “Aree Vaste” della TDF (Regione Campania, 2018 [b]), appartenenti alla provincia di Caserta: si tratta dell’Area Vasta Bortolotto (comune di Castelvolturno) e del primo stralcio dell’Area Vasta Lo Uttaro (comuni di Caserta, Maddaloni, S. Nicola La Strada e S. Marco Evangelista). Oltre ai risultati dei monitoraggi, l’ARPAC ha fornito anche due file KML delle analisi effettuate, mostrando attraverso la cartografia satellitare le particelle catastali delle zone esaminate (Figure 3.a-b; 4.a-b). Dalle immagini si vedono così incluse nei monitoraggi anche alcune zone della provincia di Napoli, precisamente, nel comune di Villaricca e nelle Aree Vaste di Masseria del Pozzo-Schiavi (comuni di Caivano, Acerra, Marigliano, Afragola, Nola, Saviano, Roccarinola, Ottaviano, San Gennaro Vesuviano, Giugliano in Campania), Maruzzella (comuni di Santa Maria La Fossa e San Tammaro) e Pianura (comuni di Napoli e Pozzuoli).

Per individuare nell’ambito di queste aree i terreni potenzialmente interessati da contaminazione per interramento e sversamento superficiale di rifiuti, l’ARPAC ha impiegato diverse tecniche di telerilevamento, soprattutto con l’uso di droni. Nell’opera di individuazione si sono però rivelate molto utili e preziose anche le segnalazioni delle popolazioni locali, che spesso sorvegliano le zone a rischio e denunciano gli abusi ancora in atto, intervenendo così in modo diretto nella lotta contro il fenomeno.

Si tratta dunque di un’ottima premessa per la realizzazione di processi partecipativi, per la cui realizzazione sarebbe però necessario che i cittadini avessero un più completo e adeguato sostegno da parte delle istituzioni, come meglio si spiegherà più avanti.
Una volta individuati i terreni contaminati, l’ARPAC è passata quindi alla fase successiva, relativa alla definizione dei gradi di rischio dei danni che hanno sinora subito, considerando parametri più o meno critici riscontrati dagli esami di laboratorio. A tale scopo ha applicato le sopraccitate cinque classi definite dal PRB (Regione Campania, 2018 [b]), sulla cui base ha presentato i risultati delle proprie analisi (ARPAC, Ivi). Questi ultimi, per quanto gravi, sono meno drammatici del previsto: sul totale della superficie esaminata (3,3 km2), infatti, circa il 45% dei terreni agricoli (1,5 Km2) risulta idoneo alle produzioni agroalimentari (classe A), mentre quasi il 2% (0,07 km2) può diventarlo, previa rimozione e analisi delle aree di sedime (classe A1).

Al contrario, esiti negativi sono emersi per circa il 17% dei terreni (0,5 km2), che presentano limitazioni a determinate produzioni agroalimentari in specificate condizioni (classe B), mentre il risultato peggiore riguarda quasi il 31% di terreni agricoli (1,07 km2) che non possono essere utilizzati per produzioni agroalimentari (classe D). Questi ultimi si trovano soprattutto in provincia di Caserta, dove si osserva la presenza delle più alte percentuali dell’ultima classe – indubbiamente la più grave – che vedono al primo posto il comune di Castelvolturno (con circa il 40% di terreni in classe D), seguito dal comune capoluogo (che ha quasi il 27% di terreni in classe D) e da Villa Literno (circa l’11% di terreni in classe D).
Segue quindi la provincia di Napoli, con i comuni di Caivano (quasi il 7% di terreni in classe D) e Acerra (circa il 6% di terreni in classe D).

Dal Patto “Terra dei fuochi” alle pratiche partecipative

La crescita economica del nostro Paese – tema di stretta attualità –  dipende anche dalla capacità di risanare e mettere in sicurezza il territorio, nonché dalla valorizzazione e riconversione delle aree dismesse. Questa è la posizione di Confindustria espressa nel 2016 nel documento “Dalla bonifica alla reindustrializzazione”. Il PNRR rappresenta a tal proposito una grossa opportunità per il risanamento delle aree inquinate della TDF, grazie allo stanziamento di una parte dei fondi a supporto della bonifica dei “siti orfani”, cosiddetti per evidenziare l’impossibilità di accollare i costi del loro recupero a degli specifici responsabili (MASE, 2020). Si tratta di una categoria in cui rientrano anche le aree inquinate della TDF e, allo stesso tempo, di una risorsa importante, perché fondata sulla collaborazione sinergica, a scale interrelate, fra diversi enti e sull’attuazione di piani operativi di tipo partecipativo.

Un orientamento, quest’ultimo, già incluso nel cosiddetto “Patto Terra dei Fuochi” (Regione Campania, 2013), sottoscritto ormai dieci anni fa dalla Regione Campania con le Province e le Prefetture di Napoli e Caserta, l’ANCI Campania e i Sindaci dei comuni interessati dal fenomeno dei roghi tossici. Il “Patto”, considerando una priorità l’obiettivo «di sradicare il fenomeno dell’abbandono incontrollato e dello smaltimento dei rifiuti mediante l’accensione di roghi» (Art. 1) individua per ciascuno dei contraenti una serie di azioni specifiche per ostacolare tale pratica. I Sindaci, in particolare, si impegnano «ad adottare misure di contrasto al fenomeno dei roghi dei rifiuti abbandonati su strade e aree pubbliche o ad uso pubblico e ad attivarsi per la tempestiva rimozione dei rifiuti» (Regione Campania, 2018 [a]). Il “Patto” promuove inoltre una sinergia interistituzionale attraverso l’avvio di un portale dedicato (“Prometeo”), volto a garantire la trasparenza delle iniziative introdotte e, al contempo, incoraggiare la partecipazione dei cittadini. Intende quindi favorire le interazioni fra popolazione, istituzioni e associazioni competenti, sostenendo al contempo le occasioni di incontro e dibattito per diffondere la consapevolezza del problema ambientale e sanitario costituito dai rifiuti tossici, stimolando l’adozione di comportamenti corretti da parte di famiglie, operatori del commercio e dell’agricoltura, artigiani, lavoratori autonomi e delle imprese. Allo stesso modo il “Patto” promuove pratiche di cittadinanza attiva per la sorveglianza civica del territorio, con l’“adozione” di aree pubbliche oggetto di degrado, per incoraggiarne il recupero e, se possibile, l’uso collettivo. Gli obiettivi e i buoni propositi del “Patto”, tuttavia, sembrano rimasti tali solo sulla carta, non solo perché la lotta agli sversamenti non è riuscita a interromperli, ma soprattutto perché il preannunciato portale “Prometeo”, visibile sul sito della Prefettura di Caserta, si riduce ad una sola e unica pagina, per giunta completamente vuota 23 .

Ciò nonostante, la partecipazione alla battaglia per la salvaguardia ambientale da parte dei residenti nella TDF è andata avanti per iniziativa spontanea, come si è anticipato in precedenza, spesso in vivace polemica con le istituzioni, accusate di scarsa efficienza nel contrastare il fenomeno dei roghi. I social network hanno in proposito contribuito in maniera significativa, permettendo agli abitanti di città come Caivano, Qualiano, Giugliano, Ottaviano (Na), Aversa, Casaluce, Casapulla, Roccamonfina (Ce) di organizzarsi in gruppi dedicati al tema – tutti contraddistinti dall’adozione del “marchio” “Mai più Terra dei Fuochi” – documentando con immagini e riprese video la prosecuzione di roghi e sversamenti abusivi nelle campagne del Napoletano e del Casertano. Vi si aggiungono associazioni del Terzo Settore regolarmente iscritte al RUNTS (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore) e presenti nei comuni della TDF, sia del Napoletano – tra cui Casalnuovo di Napoli (39 associazioni), Caivano (19), Casamarciano (15), Camposano (11) – sia del Casertano – come Casal di Principe (31 associazioni), Casapulla (14), Casapesenna (11), Casa luce (7). Si tratta di iniziative nate per offrire supporto e servizi alle collettività delle aree contaminate e, in alcuni casi, specificamente dedicate al sostegno delle famiglie con bambini ammalati di cancro. L’ampliamento del fenomeno dimostra dunque come l’esperienza condivisa dei disagi e delle sofferenze provocate da un disastro ambientale quale quello della TDF costituisca, per converso, una piattaforma efficace per rinsaldare la coesione sociale e rilanciare dal basso le azioni collettive di contrasto alla criminalità organizzata, avversando allo stesso tempo lo scarso senso civico di una parte della popolazione e l’abitudine alle forme di illegalità diffusa nelle aree degradate.
Tuttavia, non può di certo essere questa la formula per l’applicazione di quella nuova forma di libertà, responsabile e solidale, riconosciuta alla collettività dall’ultimo comma dell’Art. 118 della Costituzione italiana, che sostiene l’autonoma iniziativa dei cittadini, sia a livello individuale che associativo, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà (Arena, 2022). A fondare quest’ultima devono difatti concorrere forme di organizzazione disciplinate da patti istituzionali condivisi, come ad esempio i Regolamenti per la gestione dei beni comuni, di cui quello del Comune di Bologna, approvato nel 2014, è stato pioniere, per poi essere seguito da quello di molti altri, con modalità diverse e adeguate ai diversi contesti. Tra questi si evidenzia il Regolamento del Comune di Napoli, che però non è incentrato sulla TDF come bene pubblico condiviso, ma su una tematica di carattere più generale e trasversale, legata al tema dell’acqua quale risorsa pubblica (Giglioni, 2022).
Un ulteriore aspetto per la messa in atto di progetti partecipativi è l’educazione alla cittadinanza attiva oggi presente nelle scuole e ancorata al concetto di sostenibilità, secondo i 17 obiettivi dell’Agenda 2030. In tale ambito sono attive iniziative formative condivise da vari livelli istituzionali. Ne sono un esempio il progetto Scuola 2030, che offre a tutti i docenti della scuola italiana contenuti, risorse e materiali in auto-formazione per un’educazione ispirata ai valori e alla visione dell’Agenda 2030. Direttamente volta alla formazione dei giovani è invece la rete “Green School Italia”, un progetto che ha lo scopo di promuovere nelle scuole azioni di sensibilizzazione per ridurre l’impatto dell’uomo sull’ambiente e attivare buone pratiche di cittadinanza attiva per la salvaguardia del pianeta. Tra le province che vi hanno aderito ci sono anche Napoli e Caserta, con la partecipazione complessiva di venti scuole e licei, tra cui alcuni ricadenti nei comuni della TDF (Napoli, Mondragone, Teverola, Capua e Carinaro).

La bonifica della Terra dei fuochi, tra monitoraggi in atto e possibili tecniche di risanamento

«Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno» affermava il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone (Camera dei deputati, 1997), prefigurando l’impossibilità di portare a termine l’impresa che, di fatto, è stata solo programmata ma sinora non realizzata: «in più di diciotto anni di dibattiti, progetti e piani governativi per la TDF, i lavori sono rimasti all’anno zero» (Ruggiero, 2021). In effetti, messa a confronto con il dato nazionale (Araneo, Bartolucci, 2021), la Campania, con il 12% di bonifiche effettuate (449 su 3.701 siti accertati da recuperare) risulta ultima tra le regioni e province autonome italiane ad avere completato il risanamento delle proprie aree inquinate, mentre è prima per il numero di siti con procedimenti di bonifica in corso (3.252, di cui 1.377 in provincia di Napoli e 1.059 in provincia di Caserta), equivalenti a più del doppio della media regionale italiana (MIMIT, 2022). Un elemento positivo emerge però dalla quota di imprese che hanno nel frattempo intrapreso azioni per ridurre l’impatto ambientale: la Campania (86,7%), insieme alla Sicilia (87,8%) e alla Puglia (86%), ha infatti una percentuale di recupero dei rifiuti speciali superiori alla media nazionale (80,8%), cui si aggiunge la circostanza che è la regione con la quota inferiore di emissioni di gas serra pro-capite (Ivi).

Il suo ritardo sulle bonifiche è però molto evidente, ma alla base vi sono anche motivi di ordine burocratico: con il DM dell’11.01.2013 24, infatti, le zone della regione da bonificare, inizialmente perimetrate come Siti di Interesse Nazionale (SIN) 25 , sono state declassificate a Siti di Interesse Regionale (SIR) 26. La Regione ha così ereditato un compito molto oneroso, già pianificato ma non ancora avviato, di cui ha dovuto farsi carico integralmente, a partire dalla fase del monitoraggio – di cui si sono in precedenza descritte la struttura metodologica e lo statu quo – che, allo stato attuale, non è concluso. I siti in attesa di indagine sono la maggior parte e le analisi, anche per la loro complessità, procedono a rilento: gli ultimi risultati – pubblicati nel 2021 sulla G.U. 27 – sono relativi ai rilievi condotti dall’ARPAC insieme ad altri enti del gruppo di lavoro Terra dei fuochi (legge n. 6 del 06.02.2014) 28 sui terreni agricoli delle aree vaste individuate dal PRB (Regione Campania, 2018[b]) dei siti inquinati della Regione Campania, con particolare riguardo alle già citate aree di Bortolotto e Lo Uttaro (Figure 3.a-b e 4.a-b).

A fronte della contaminazione certificata di suoli e acque sotterranee, è stata interdetta la coltivazione dei terreni agricoli, ora controllati dai Carabinieri Forestali, mentre i «tecnici delle aree territoriali e dei laboratori di Arpac stanno continuando a prelevare e analizzare campioni di terreni e di acque nell’area vasta di Lo Uttaro, nell’ottica di completare, nei relativi comuni, le indagini previste dalla legge 6/2014» (Marro, Bardari, 2021). Da un recente aggiornamento delle banche dati del PRB (Delibera della Giunta Regionale n. 736 del 28/12/2022) numerose microaree (misurate in m2) distribuite tra le cinque province della regione risultano in effetti oggetto di interventi di bonifica attuati o prossimi all’attuazione; ma l’elenco dei terreni agricoli che non possono essere utilizzati per la produzione agroalimentare o silvopastorale, ricadenti, come si è già evidenziato in precedenza, nelle province di Napoli e, soprattutto, di Caserta, continua a riportare le sole attività di monitoraggio ed è del tutto privo di informazioni su bonifiche attuate o in atto 29

Alla difficoltà di completare i campionamenti, si aggiunge la complessità di affrontare la situazione con tecniche di bonifica di tipo fisico-chimico: queste ultime non sono una soluzione facilmente praticabile per il risanamento dei suoli contaminati, sia per i costi molto elevati, sia perché li restituiscono completamente degradati e infertili, non più utilizzabili per scopi agricoli. La circostanza è confermata da ISPRA (2018), che, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha realizzato una matrice di screening (in costante aggiornamento) come strumento di supporto alle decisioni delle pubbliche amministrazioni nella selezione delle tecnologie di bonifica, evidenziando l’entità degli impatti a breve e lungo termine sulle risorse naturali dei trattamenti chimici adottati per il risanamento dei suoli inquinati. Dalla matrice emerge come soluzione alternativa l’adozione di tecniche di “fitorisanamento” (legate alla capacità di alcune piante di depurare il suolo, l’aria e l’acqua da componenti inquinanti) applicate nell’ambito dei più moderni sistemi di bonifica sostenibile con un triplice obiettivo: disinquinare un suolo contaminato; ripristinarne la fertilità; produrre materiali utili per la filiera agro-energetica e della chimica verde.

La parola è stata coniata negli anni ‘90 dalla ricercatrice Ilya Riskin, che ha lavorato nell’area di Chernobyl nel tentativo di ripulire la terra contaminata coltivando, appunto, la canapa, una pianta che fa parte della tradizione economica storica della TDF e può essere quindi il candidato ideale per la fitodepurazione dei terreni inquinati. La sua coltivazione e lavorazione è stata per lungo tempo l’attività principale degli abitanti di alcune delle aree contaminate, tra cui Frattamaggiore (Santangelo, 2003); rappresenta quindi un indubbio punto di congiunzione tra passato e presente e un incentivo a recuperare una pratica che potrebbe contribuire alla ripresa materiale e immateriale dei territori degradati dagli sversamenti abusivi, tanto più perché la canapa coniuga l’adeguatezza per la loro bonifica con la produzione di materie prime o prodotti di alto valore economico ed ambientale. Grazie alla sua capacità delle sue radici di trattenere i materiali contaminati, può infatti essere utilizzata per produrre biodiesel, bioplastiche, cere, biobatterie e superconduttori, carta, materiale per l’edilizia e molto altro. Le sue caratteristiche biochimiche sono quindi efficaci in differenti ambiti di recupero ambientale e la rendono non solo un’ottima arma di difesa del territorio e della salute umana ma, nello stesso tempo, una fonte di reddito per le aziende agricole secondo le logiche dell’Economia circolare e dei valori rigenerativi che dovrebbero essere alla base dell’economia sostenibile (Tolve et Alia, 2019).

La ricerca internazionale è quindi proseguita, dalla Germania all’India, con diversi scienziati che hanno testato il potenziale della canapa per scoprire che questa pianta funziona per rimuovere dal suolo metalli pesanti come piombo, cromo, nichel arsenico e altri elementi 30. Su questa linea, alla luce dell’interesse europeo sul rapporto fra ecologia ed economia (European Commission, 2012), nel 2012 è partito in Campania il progetto Life-Ecoremed, finanziato dalla Comunità Europea e conclusosi nel 2017, con prestigiosi riconoscimenti internazionali. Coordinato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca Ambiente (CIRAM) dell’Università di Napoli Federico II, Ecoremed ha coinvolto 69 ricercatori appartenenti a diverse aree (agronomica partneriato, chimica, ingegneristica, geologica, economica, biologica, medica, urbanistica), con il sostegno dell’ARPAC, della Regione Campania e di Risorsa SrL. Il progetto, in un’ottica sistemica e interdisciplinare, ha sperimentato l’efficacia delle bonifiche ecosostenibili nell’Agro aversano, attuando tecniche di biorisanamento, con l’utilizzo di batteri per biodegradare gli idrocarburi presenti nel terreno, e di fitorisanamento, con il ricorso a diverse specie di piante non alimentari – tra cui, oltre la canapa, figurano anche i pioppi – per abbattere il contenuto di inquinanti organici e inorganici del suolo nella prospettiva di restituire, al termine del processo, le aree all’originario uso agricolo.

Allo stesso tempo, il progetto ha inteso incentivare l’uso delle bonifiche ecosostenibili, affrontando aspetti connessi alla pianificazione e alla tutela del territorio e del paesaggio agricolo, al rafforzamento delle attività di presidio e al controllo dello spazio rurale per contrastare le pratiche illegali da cui originano i fenomeni di inquinamento. In tale prospettiva, nel 2017 è stato realizzato con successo un esperimento di fitorisanamento nella zona industriale di Marcianise, in provincia di Caserta: l’azienda Eco bat, applicando il protocollo Ecoremed, ha piantato 17.500 pioppi nei pressi di un terreno di 35.000 m2 fortemente contaminato da metalli pesanti, ottenendone in soli 4 mesi il risanamento e ricostituendone la fertilità grazie al compost prodotto della frazione organica dei rifiuti solidi urbani proveniente da un impianto di Salerno. Ha poi utilizzato il legno di pioppo, secondo un processo di economia circolare, come biomassa reimpiegabile nel ciclo dell’impianto (De Rosa, 2017).

Ulteriori e più recenti sperimentazioni sono state condotte dal CNR, che ha applicato tecniche di biorimedio fitoassistito per il recupero di un suolo proveniente da un’area multi-contaminata situata nei pressi della città di Taranto e affacciata sul Mar Piccolo (Grenni et Alia, 2019) . Un altro esempio in Italia ha riguardato la sperimentazione di tecniche di fitocontenimento e di tecnologie di bioremediation nei terreni agricoli del SIN “Brescia-Caffaro”, confermando la potenzialità di questa tecnologia biologica, la cui concreta applicabilità su larga scala per la bonifica dei terreni agricoli dei SIN rappresenta ora il traguardo da raggiungere (Anelli et Alia, 2019) 31.

L’utilizzo del fitorisanamento per bonificare i suoli contaminati si sta dunque affermando grazie ai molti vantaggi che offre, anche di tipo economico: i costi sono inferiori del 40% rispetto ad altre applicazioni in situ e si riducono fino al 90% per i trattamenti ex situ 32 (Bonomo, Sezenna, 2005). Si può quindi valutare il fitorimedio come un pool di tecniche di intervento a basso costo da adottare per la bonifica/messa in sicurezza e la gestione di lungo/lunghissimo periodo di aree inquinate (Marchiol, Tomat, 2019): la loro applicazione, infatti, evita totalmente gli impatti a breve e lungo termine sulle risorse naturali.

L’Italia, tuttavia, sconta un sensibile ritardo nell’applicazione estensiva di queste tecniche, per motivi di tipo tecnico e giuridico-amministrativo, specificamente legati al destino delle biomasse prodotte all’interno di siti contaminati (Sconocchia, 2016). Un punto a favore dell’uso di questa tecnica di risanamento green è venuto però da Confindustria (2016) – che ne sottolinea l’efficacia per l’integrazione nelle politiche di bonifica del rilancio di attività economiche/industriali – e dall’ISPRA (2018), che ha messo a punto la già citata “Matrice di screening delle tecnologie di bonifica”. Quest’ultima evidenzia l’efficacia del fitorimedio per la bonifica di suoli inquinati da determinati tipi di composti inorganici e organici, anche operando in sinergia con altri sistemi, così come di altre tecniche biologiche per ulteriori tipi di composti organici 33.

Certo queste tecniche, oltre al limite di applicazione, presentano un punto critico nei tempi di attuazione, ma, al vantaggio dell’impatto zero sugli equilibri naturali aggiungono un ulteriore e indubbio effetto positivo sulla percezione delle collettività e sulla possibilità di coinvolgerle nella ripresa di pratiche economiche legate alla storia dei propri territori, come, appunto, nel caso dell’uso della canapa nella TDF.

Conclusioni

L’intenzione originaria di questo contributo era la realizzazione di una ricerca sulle attuali tecniche di bonifica ecologica per il recupero integrale dei territori contaminati della TDF. Strada facendo l’obiettivo si è ampliato: la frammentarietà dei dati disponibili sulla estensione del fenomeno e i rilievi ancora in corso hanno imposto un lavoro di chiarificazione preliminare per inquadrare il problema nelle sue dimensioni, a cominciare da quelle geografiche.

Di certo la questione non può ridursi a una misurazione di tipo puramente quantitativo, implicando aspetti di tipo antropologico, ambientale, storico-sociale, politico-economico, etico-culturale e richiamando, più in generale, la necessità di un ripensamento del modello economico di tipo funzionale sinora adottato. Se negli anni ‘70 del secolo scorso le critiche in proposito sono maturate soprattutto nell’ambito della geografia critico-sociale di stampo marxista, spunti interessanti sono stati offerti anche da altri studiosi, come Nicholas Georgescu-Roegen, ideatore della “bioeconomia”, ispirata non ai principi della meccanica razionale ma a quelli dell’ambiente e, come tale, fondata sull’idea di circolarità e riuso di materiali ed energia nei meccanismi dominanti di produzione e consumo (Falcone, Imbert, 2016).

La TDF è pertanto la dimostrazione estrema delle conseguenze devastanti di un sistema economico fine a sé stesso e della necessità di riformulare i termini del rapporto uomo-ambiente in una visione olistica integrale. La strada da percorrere, dunque, non può che essere di carattere sistemico, considerando l’impatto degli interventi tecnico-scientifici sulle politiche di gestione del territorio e sulla qualità della vita delle collettività che lo abitano. Una visione oggi quanto mai attuale, in relazione ai principi ispiratori dell’Agenda 2030 dell’ONU e alle strategie di sostenibilità del Gran Deal europeo.

Bibliografia