L’esito delle elezioni europee si offre ad una duplice chiave di lettura, Se sul piano strettamente politico è innegabile una netta torsione dell’elettorato verso posizione autoritarie, come dimostrato dalla affermazione dei partiti di estrema destra in Francia e Germania, sul piano sociologico non può che registrarsi l’assenza di un sentire europeo diffuso e la condivisione di un destino comune: da un’analisi complessiva del voto, infatti, sembra che non vi sia nulla che unisca la “gens europea” e le scelte dei cittadini appaiono orientate dal conformismo antieuropeista che invoca chiusura e ordine.
Forse proprio dall’Italia, al netto del rilevante astensionismo, il corpo elettorale ha voluto inviare un’indicazione precisa, non si sa quanto consapevole, che vede il configurarsi di un nuovo bipolarismo affidato alla forza comunicativa e al linguaggio diretto della Meloni e della Schlein.
Nel Meridione il voto ha rafforzato la proposta politica delle forze progressiste e di certo hanno pesato le indicazioni drastiche del governo sui diritti sociali e sull’autonomia differenziata. Nessuno, pertanto, dovrebbe rivendicare meriti se non i singoli candidati che hanno conquistato il consenso.
Questo nuovo bipolarismo sembra avere anche una rappresentazione territoriale, piuttosto delineata, con il centro nord che esprime una linea marcatamente filo governativa.
Il quadro generale europeo riporta, alla fine, una sostanziale tenuta delle forze democratiche europeiste, ma la forte presenza delle formazioni sovraniste è ormai un dato acclarato che richiede una risposta forte e concreta sul piano delle riforme che la prossima Commissione dovrà adottare; urge cioè un cambio radicale di rotta che dovrà tenere conto non solo delle difficoltà interne, rappresentate dalle correnti d’opinione avverse al percorso dell’integrazione, ma anche ai cambiamenti degli scenari internazionali che, ad oggi, vedono l’Unione Europea come una sorta di vaso di coccio tra i giganti (Stati Uniti, Cina e Russia) che si contendono il timone del nuovo ordine mondiale.
C’è un altro aspetto che è stato evidenziato dagli osservatori delle maggiori testate giornalistiche americane e riportato da Federico Rampini su “la Repubblica”, ovvero il ridimensionamento del tema cruciale dello sviluppo sostenibile e delle politiche ambientali: a tal riguardo ha destato clamore la batosta elettorale dei “Grunen” tedeschi, il partito simbolo delle battaglie verdi in Europa.
Oggi il “modernismo“, a tutti i costi, delle politiche di riconversione energetiche viene visto come una minaccia ai settori produttivi tradizionali e ai posti di lavoro nella grande industria e nell’agricoltura, con la spada di Damocle della concorrenza cinese, libera da prescrizioni, che pende sul manifatturiero europeo.
L’identità europea, intesa come orizzonte, è in una fase se non di riflusso, sicuramente di stagnazione e, per usare un’espressione adesso in voga in Italia nella narrazione politica, il cittadino europeo medio non vede arrivare nulla di positivo dalla transizione che dovrebbe portare il Vecchio Continente al cospetto del futuro.
Difficile dire se gli elettori europei abbiano fatto una scelta meditata e analitica nelle urne, o piuttosto abbiano scelto di non scegliere, delegando il tutto a quella tecnocrazia europea che si alimenta di astensionismo e qualunquismo.