Rino Mele, un faticoso tornare è la poesia

Quattro componimenti da alcune delle sue raccolte e un recente inedito del poeta salernitano, finalista nel 2016 al Premio Viareggio con "Un grano di morfina per Freud" (introduzione di Gillo Dorfles, Manni editore), in cui - partendo dalle radici della Seconda Guerra Mondiale, "Vienna diventa tedesca, si sveglia diversa / quella mattina del 13 marzo 1938 che non è ancora / primavera" - la poesia e la storia mostrano di riconoscere la comune appartenenza a un ineludibile strazio

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49 anni fa. Rino Mele davanti a uno "specchio" di Michelangelo Pistoletto, in una fotografia di Pino Grimaldi, 1975

Rino Mele nasce il 4 febbraio 1938. Tra i suoi libri di poesia, Separazione di sera, Sottotraccia,1994; L’incendio immaginato, edizioni 10/17, 2000: ed è la storia di Giordano Bruno, la sua lucente visione; Il sonno e le vigilie, Sottotraccia, 2000 (il genocidio e l’oltraggio tra Hutu e Tutsi nello Zaire); Il corpo di Moro, edizioni 10/17, 2001 (ripubblicato in seconda edizione nel 2018, con testo critico di Niva Lorenzini), edizioni Oèdipus; I dolorosi discorsi, ed. Sottotraccia, 2003; La lepre del tempo e l’imperatore Federico II, Sottotraccia, 2004. Costruzione della rima, Plecticá, 2010; La dolce apocalisse, Plecticá, 2011; Il silenzio nudo, edizioni La luna, 2012; Un grano di morfina per Freud, con l’introduzione di Gillo Dorfles, edizioni Manni, 2015, in cui – partendo dalle radici della Seconda Guerra Mondiale, “Vienna diventa tedesca, si sveglia diversa / quella mattina del 13 marzo 1938 che non è ancora / primavera” – la poesia e la storia mostrano di riconoscere la comune appartenenza a un ineludibile strazio (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale).

Poi, un libro di poesia sulla poesia e le sue lucenti radici, Futuro anteriore del verbo precipitare, Manni, 2021.

Insieme a Dacia Maraini ha scritto Montagne pensose, dialogo sulla poesia, ed. D’Amato 2023.

Infine, dal 2009 dirige Exmachina, Fondazione di poesia e storia.

 

Poesia per archi e pianto

Sono infissi sul banco i pennini,

tremano

sotto le dita, è il suono

dell’organo ferito, il muggito

lieve dell’animale fuggito alla torma

di ignudi che con forche

e spade vuole straziarne la vita.

Sulla neve la traccia

è nera come quella della matita.

Mi piace pensare a Carlo

Villa bambino, il suo raccontare

la poesia,

la foresta che l’incendio trasforma

e il piede s’arresta

in quella stravagante striscia

stretta come un canale,

la cintura di una dea tra la neve

e il lontano bruciare.

La fiamma precipita e s’apre,

sono le campane, le navate

larghe, gli angeli

alti sulla testa dei santi,

le ali del colore delle rose

murate, il labirinto dei petali,

lo sperdersi in quell’odore,

vedere il sole notturno e l’alba

che danza nel sonno della grazia.

Chiudeva nei quaderni

le linee curve

di un aggressivo amore,

quelle diritte della ragione,

disegnava grandi alberi

senza foglie, e lontano il mare.

Quanto dolore scordarsi

l’infanzia e farla tornare, il gioco

alterno della fatica,

spostare l’onda che si gonfia

nuova sul remo, infinita.

I gatti feroci miagolano, li senti

di notte e straziare

aspri come in un film

della Resurrezione, si contendono

i topi nella scatola di cartone.

[Rino Mele, I dolorosi discorsi, Sottotraccia, 2003]

 

La bicicletta di Moro

Sul letto un lenzuolo, una coperta

militare,

vorrebbe camminare, piano,

ad Ostia, sentirsi i piedi scalzi

bagnare

dall’onda che stordisce, e risale

il suo petto scavato,

il ventre intristito, le mani

lunghe come sciogliesse un nodo

che non si lascia slargare. Quale

tortura

dormire le notti di maggio di quel

suo ultimo

anno. Si distendeva piano,

chiudeva gli occhi e come un ciclista

pensava la sua vita, una salita

impervia,

la bicicletta ferma, l’ansimo di uno

stentato

respirare, quell’asma

pungente che travaglia il respiro,

quasi il mare

dall’alto stesse per precipitare.

Sognava

un muro di pietra, la pagina

di un abecedario sporca d’inchiostro,

i colori

sbiancati, “b” è la bandiera,

“r” la rivoluzione, “c” la canzone,

ma non riesce a ricordare

i versi di nessun canto, sente solo

un lamento,

i poliziotti uccisi, la madre, il vento

che urla le scale. Ricordava i volti e

li vedeva

morti, i potenti sembravano risorti

alla rovescia, la testa in giù,

le braccia

aperte, le lunghe radici dei piedi,

il guizzare

stanco. Dormiva in una folla

vestita di nero, gli uomini calvi, le

donne

dai capelli rossi, i bambini

di plastica sepolti. Sentiva il suo

corpo

diviso, distratto in più parti,

il capo

posto sul cuscino, le braccia

per terra, il cuore stretto tra le mani,

che spremono il sangue in un

bicchiere.

Poi, svanendo

si ricompone, le gambe sono la figlia

Anna

a destra, e la sinistra è Agnese

(quella del cuore), le braccia

tornano leggere al loro posto, il collo

regge

la testa distrutta dalla sabbia,

la voce

è un sibilo lieve di uccelli. Ora

è fermo. Dal sonno

in un più duro sonno, di margine

in margine annega

come pioggia che in altra si perde.

[Rino Mele, Il corpo di Moro, edizioni 10/17, 2001; seconda edizione Oèdipus, 2018]

 

Lo scuro silenzio della poesia

Dall’inesprimibile ci stacchiamo

nascendo.

Resta, per sempre, l’urgenza

di scambiare il nostro volto con la

terrificante

bellezza di quel feroce richiamo.

Coi suoi piedi leggeri

sul ritmo delle parole – le povere

rime – la poesia cerca la pena

di quel suono,

fa un passo, si ferma, tace,

riprende a danzare

come tra i morti,

quando possono ricordare.

Un faticoso tornare è la poesia,

il doloroso

cercare gli stagni notturni, il mare

di nebbia

della violenza da cui immemori

siamo nati.

Risalire fino alla sorgente sigillata

dal nero silenzio.

Poesia è sfuggire alla parola consumata,

non il complice ascoltarsi, ma dire

lo strazio

di pensare, farsi male

nell’avvicinarsi alla più interna voce

di quel buio

che vorremmo dimenticare.

Poesia è questo tornare

dove non c’è riparo dalla colpa, in

una pianura di neve,

andare, pensando

d’essere morti, incontro a chi ti assale

e continuare

a dissigillare il silenzio in altre

tenebre

dentro cui aspramente qualcuno

ti guida: sei tu,

con la voce di tuo padre ancora in vita

(come l’acqua si dirupa,

secondo la forza che la stringe

e disperde,

la vuota maschera quotidiana dice

l’incerto pensiero

che sembra nascere dalla voce, come

quando l’ombra

precede il corpo che la produce).

Legato alla nascita, il poeta trattiene

le ferite

di quelle scale,

le ripercorre al contrario, stretto

alla bocca materna

che l’azzanna.

Scrive

secondo un ritmo penitenziale, perché

non c’è scampo

al male.

Il fischio ossessivo del merlo

che il cacciatore uccide sul burrone.

[Rino Mele da “Poesì”, rubrica settimanale di poesia su Agenzia Radicale, 24 marzo 2020]

 

Il sogno, il gioco e la poesia

Quando ricordiamo un sogno – a differenza di quanto credeva Freud con la sua geniale e rivoluzionaria ricerca del 1899 – le immagini bianche che abbiamo sognato sono forse solo la traduzione delle parole originarie che siamo riusciti a trattenere col nostro desiderio: quella traduzione – svegliandoci – diventa racconto, lo spasmo ripetuto di quella voce che non potremo mai avere di fronte a noi, perché continua a generarci: a lasciarci nell’abisso: i sentieri della notte sono così stretti da diventare muri, la scala di pietra impedisce a chi scende di risalire. Il sogno che maschera la voce originaria non si oppone al reale, del reale ripete la dolorosa banalità.

Sogniamo quello che già sappiamo, muovendoci tra girevoli porte (parlai, per la prima volta della parola che nel sogno precede l’immagine nel mio “Scena oscena”, Officina edizioni 1983).

Solo la poesia tenta di fare, di un urlo disperato, la linea astratta disegnata da una matita, il sentiero che sta sempre alle tue spalle e hai percorso già per intero, nascendo.

 

Il bambino gioca come sognasse,

supera un dirupo volando,

pensa a un cavallo,

ora è lui a nitrire

correndo.

La madre è una nube,

piange

nel cercarlo: la voce

che lo chiama è vestita

come una sposa o una notturna

rosa. Il gioco riproduce

il rovescio del sogno, e l’uguale,

ma è più crudele:

non ti puoi svegliare.

Anche il gioco è un sognare

ma in due, e non sai mai

chi sia l’ombra

che si sottrae. La poesia

ha memoria del sogno

e del gioco,

ne sorride,

sa che deve svelare

l’assurdo girare tra gli astri,

la caduta improvvisa,

l’incendio

che torna e somiglia alla neve.

[Rino Mele, “Cronache” 28 luglio 2024, rubrica a giorni alterni, a pagina 1 e 11]

 

Lo stupore e la morte

Siamo l’insetto senz’ali che

un ragazzo tortura,

l’ali

che strappa e taglia
col familiare trincetto, il
taglierino dalla scorrevole
lama per appuntire
la matita.
Siamo noi il piccolo uomo

di quell’inconsapevole

infanzia:

ora ha pulito col braccio
la superficie del tavolo,

spostato

la gomma, lo stick
della colla
e, infine – scostando i libri
importuni

di algebra e di poesia –

inizia
l’opera che l’appassiona:
straziare,
staccare l’esili zampe, l’ali
trasparenti,
lievemente innervate, vedere
il non più riconoscibile insetto,

l’azzurra mosca
aspettare

il finale disconnettersi

di tutto,
che è la morte,

l’afono stupore delle tenebre.

[Rino Mele, versi inediti scritti il 4 settembre 2024]

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