Nelle aree antistanti il Castello c’è il codice kafkiano dei gesti

Fuori dalle vecchie mura, il Potere viene esercitato attraverso inavvicinabili funzionari, meticolosamente attaccati alle sottili distinzioni gerarchiche delle loro mansioni burocratiche, secondo una visione feudale dell’organizzazione statale e dell’amministrazione della giustizia, fatta di privilegi, arbitri, soprusi e sempre volta alla difesa di interessi costituiti

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Nei dintorni del Castello un'atmosfera rarefatta rende invisibile, nonostante sia presente, l'insinuante Potere temuto e censurato dall'autore

2.Fuori il Castello: «jede belanglose Veränderung der belanglosesten Dinge ernstlich stören» (“qualsiasi insignificante mutamento nelle cose più insignificanti è di grave disturbo”)

L’autore del saggio, Alberto Granese, già professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università degli studi di Salerno

Il racconto di Olga, con la sua lunga storia del rifiuto di Amalia di piegarsi alle richieste di un importante funzionario del Castello, crea una zona metanarrativa a circa metà romanzo, facendo acquistare all’altra sorella di Barnabas un ruolo centrale, il secondo per importanza dopo quello del protagonista, di cui costituisce il vero personaggio alternativo, nonostante le poche battute a lei assegnate. Ne emerge tuttavia una caratura di grande lucidità, essendo l’unica a comprendere la verità intorno al Castello, ossia l’impossibilità di potervi accedere con un normale canale comunicativo, e per tale ragione a non avere certezze e speranze. Il suo coraggioso comportamento, ispirato a fierezza e orgoglio per il suo gesto eroico, del cui paradossale significato è perfettamente cosciente, rifiutando le oscene imposizioni di Sortini, la rende completamente diversa da tutti gli abitanti del villaggio, aliena, quindi, da ogni compromesso con il castello, pronta ad accettare tutte le conseguenze della sua opposizione, pur di difendere la propria libertà individuale; in tal senso, il suo comportamento è antitetico a quello di K., più portato ad accedere a diversi compromessi e a ricercare rapporti erotici per entrare nello sfuggente sistema organizzativo del Castello.

La paura inconsistente

che schiavizza tutti  

La gente è schiava di una paura inconsiderata: «Freude am Schaden des Nächsten, unzuverlässige Freundschaft (“La gioia maligna del danno altrui, l’infedeltà degli amici”)» prevalgono sulla solidarietà. Anche K. vive soggiogato dalla paura: «Du fürchtest Gehilfen überhaupt, nur aus Furcht hast Du den guten Artur geschlagen (“tu degli aiutanti hai paura e solo per paura hai picchiato il buon Artur”)». Si è alienato la possibilità di un colloquio con Klamm, poiché ha fatto invaghire di sé Frieda, sua ex amante, e «desto weniger Kraft bleibt, sich gegen die Außenwelt zu wehren, infolgedessen kann dann jede belanglose Veränderung der belanglosesten Dinge ernstlich stören (“minore è la forza che rimane per difendersi dal mondo esterno, e per conseguenza qualsiasi insignificante mutamento nelle cose più insignificanti è di grave disturbo”)». Il segretario Erlanger invita K. a far ritornare Frieda al suo posto, al banco di mescita dell’«Albergo dei Signori»: i sentimenti personali devono essere dimenticati, soltanto i sentimenti dei fautori del potere devono essere rispettati e, pertanto, la Frieda di Kafka svolge in effetti un ruolo di mediazione tra K. e Klamm.

Nelle relazioni predeterminate tra padroni, esecutori e servi appare che la struttura portante di questa comunità non si discosta dal modello consueto di una società autoritaria e totalitaria, in cui il Potere viene esercitato attraverso inavvicinabili funzionari, meticolosamente attaccati alle sottili distinzioni gerarchiche delle loro mansioni burocratiche, secondo una visione feudale dell’organizzazione statale e dell’amministrazione della giustizia, fatta di privilegi, arbitri, soprusi e sempre volta alla difesa di interessi costituiti. Il Potere inafferrabile di Da Schloß si presenta, quindi, non come un bene posseduto, una proprietà facilmente identificabile, ma come una funzione, che si riflette nella strategia diegetica del romanzo, per cui, nonostante la sua struttura poliedrica e pluridimensionale ˗ dal corposo realismo delle differenti storie di Amalia e di Frieda alla surreale pantomima, come uno slapstick cinematografico, delle comiche “clownerie” di Artur e Jeremias ˗, risulta architettonicamente compatto.

Nel racconto, policromia

del reale e tanti misteri

Il solo modello che Kafka poteva tenere presente, a livello storico, era quello dell’impero austroungarico retto dalla decrepita dinastia absburgica e sconfitto nella Grande Guerra; mentre, sul piano biografico, giocavano ruoli essenziali, la malattia, come reale male fisico e conseguente male dell’anima, la casa-incubo paterna, per lui negazione di ogni sicurezza e tranquillità domestica, l’organizzazione onnipotente delle banche, conosciuta nel suo decennale impiego presso una compagnia di assicurazioni. È, pertanto, impossibile decodificare univocamente il romanzo, con i suoi personaggi e ambienti spesso privi di determinazioni concrete, designati con sigle astratte, il suo intreccio indissolubile di divagazione fantastico-onirica e di descrizione cristallina del particolare realistico. La realtà del Castello è scolorita e smaterializzata; domina una trasfigurazione simbolica del dato certo, poiché Kafka intende attirare l’attenzione del lettore sulla policromia del reale, che nasconde sempre un raccordo con altri misteri, un rinvio a una dimensione “altra”, forse trascendente, tanto che il protagonista è costretto più volte a decrittarne i segni, spesso secondo un intreccio diegetico in analessi, che finisce per ampliare il senso del segmento informativo precedente. Insomma, K. e il lettore del romanzo convergono in una stessa attività ermeneutica. In maniera illuminante Walter Benjamin, in un saggio scritto nel 1934 per il decennale della morte dell’autore, ha chiarito la natura del codice kafkiano: «Si può vedere con certezza che tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove».

   L’immagine del Potere è, dunque, resa espressivamente dall’autore proprio operando un’astrazione da fatti troppo contingenti, così come avviene per il Castello che, se anche potrebbe essere probabile l’identificazione con il Catello boemo di Wossek a sud di Praga, ricordo d’infanzia di Kafka, rimane immerso in una dimensione enigmatica e irreale, ma costruita con un linguaggio sempre incisivo, lineare e chiaro. Paradigmatico il rapporto di K. con il Castello, avvolto, nell’ora incerta del crepuscolo invernale, in una dimensione al tempo stesso assurda e reale. L’agrimensore, pur trovandosi lontano e spinto da un senso di angoscia a guardare, ha l’impressione inquietante che il Castello se ne stia come una persona tranquillamente seduta, come se fosse sola e non vista, e tuttavia si avvedesse di essere osservata, ma senza che la sua calma fosse turbata, dal momento che, in una sorta di reciprocità in cui non si sapeva se fosse causa o effetto, gli sguardi dell’osservatore non potevano fermarsi e scivolavano via:

La fortezza osservata

come una persona

«Das Schloß, dessen Umrisse sich schon aufzulösen begannen, lag still wie immer, niemals noch hatte K. dort das geringste Zeichen von Leben gesehn, vielleicht war es gar nicht möglich aus dieser Ferne etwas zu erkennen und doch verlangten es die Augen und wollten die Stille nicht dulden. Wenn K. das Schloß ansah, so war ihm manchmal, als beobachte er jemanden, der ruhig dasitze und vor sich hinsehe, nicht etwa in Gedanken verloren und dadurch gegen alles abgeschlossen, sondern frei und unbekümmert; so als sei er allein und niemand beobachte ihn; und doch mußte er merken, daß er beobachtet wurde, aber es rührte nicht im Geringsten an seine Ruhe und wirklich – man wußte nicht war es Ursache oder Folge – die Blicke des Beobachters konnten sich nicht festhalten und glitten ab» (“Il castello, i cui contorni cominciavano ormai a dissolversi, era là silenzioso come sempre, finora K. non aveva mai notato lassù alcun segno di vita, forse da tale distanza non era nemmeno possibile vedere qualcosa, e ciononostante gli occhi lo esigevano e non si rassegnavano ad accettare quella quiete. A volte, quando K. osservava il castello, era come se osservasse qualcuno che se ne stava lì tranquillo guardando davanti a sé, non però come perso nei suoi pensieri e quindi inaccessibile, ma libero e privo di preoccupazioni; come uno che fosse solo e non osservato da nessuno, e tuttavia fosse costretto a notare che qualcuno lo sta osservando, ma rimanesse perfettamente immobile nella sua quiete; e in realtà – senza sapere se questa fosse una causa o una conseguenza di ciò – gli sguardi di chi osservava non riuscivano a rimanere fissi e scivolavano via”).

Dimensione straniante

resa con registri multipli   

Risulta evidente come, se in apparenza Kafka si attiene a una descrizione inizialmente realistica costruita con segmenti linguistici di rigoroso nitore, nello stesso tempo e in maniera contraddittoria, la rappresentazione dell’oggettività assume un’immagine sfuggente, ambigua, chiaroscurale, in cui il soggetto e le cose sembrano confondersi, sì che realtà e surrealtà ossimoricamente finiscono per coincidere o si attua un capovolgimento dei piani narrativi del reale e dell’irreale, secondo quella “tecnica dell’inversione”, l’Umkehrungstechnik, magistralmente da lui usata. Si ha, quindi, l’impressione che K. e l’impenetrabile Castello, tanto più antropomorfizzato, quanto depersonalizzata è la sua incomunicabile gerarchia, vivano in una dimensione paradossale, in cui «tutto ciò che si crede d’afferrare sparisce», come afferma Blanchot in Lo spazio letterario, proprio perché il conflitto, in ultima analisi, aporetico tra questi due soggetti principali nasce dal loro reciproco non-intendersi; ed è dall’impossibilità comunicativa, dal prevalente manifestarsi dell’autorità comitale con i fatti rispetto alle parole, dalla conseguente e continua necessità di interpretare segni, pretesi chiari e determinati, in realtà sfumati e ambigui, emessi da una logica aliena e quindi in sé significanti, che traggono origine i meccanismi tipici della scrittura kafkiana, le spinte narrative, spesso dislocate su registri multipli, indispensabili per far andare avanti il romanzo con sempre nuovi episodi e contestuali adattamenti diegetici.

    Intanto, sul piano critico-esegetico, dopo la lettura in chiave teologica di Brod (la lotta dell’agrimensore K. nel Castello rappresenterebbe il principio di grazia), non meno depistante è stata l’interpretazione esistenzialista di Camus, da cui prendono avvio gli abusatissimi termini di «assurdo» e «kafkiano»; di qui l’origine dei fraintendimenti della struttura polisemica dell’opera di Kafka, non essendovi un solo punto di vista logico universalmente valido in contrasto con un mondo privo di logica, ma un conflitto fra due logiche inconciliabili: da una parte, quella aristotelica, rappresentata dal protagonista, dall’altra, una logica diversa, estranea, retta da regole precise, contro le quali il protagonista si scontra, ma che finiscono oggettivamente per prevalere. Quello che impropriamente viene designato come “assurdo” non è altro che la manifestazione di questo conflitto, in cui la logica non aristotelica, formata da componenti collegate con l’ebraismo e dotata di forza attiva e propulsiva, tale da incidere sui fatti concreti, si trova, in maniera paritetica, sullo stesso piano della aristotelica o, in maniera più semplice, del comune buon senso, per cui se il protagonista non riesce a percepire l’esistenza del diverso finisce per non rendersi conto dell’esistenza di questo incomponibile contrasto e portare a fallimento la sua azione.

Le chiavi di lettura

di Sartre e della Arendt

Vanno, quindi, considerate le chiavi di lettura della Arendt, che focalizza la rivolta del protagonista kafkiano contro i sistemi burocratici, insieme l’attenzione dello scrittore per il mondo degli emarginati, e di Sartre, che individua nella sua opera spinte anche socialmente rivoluzionarie. E se per Lukács, Kafka è l’autore che più di ogni altro è riuscito a descrivere l’impotenza di tutto ciò che è umano davanti al potere dell’inferno capitalistico moderno, mentre Deleuze e Guattari individuano le figure di alterità nell’animale, nel digiunatore, nello straniero e l’ibridazione del comico con il politico nella sua scrittura, l’interpretazione strutturalistica si dedica all’analisi delle strutture del testo in sé, Politzer a un approccio strettamente “testualista”, Binder all’intero macrotesto kafkiano, dall’opera narrativa agli epistolari. Si deve ora alle ricerche storico-biografiche di Wagenbach, allo studio della componente ebraica orientale, rilevata da Baioni, ai tre volumi della monumentale biografia di Stach, ma anche  alle indagini filologiche di Pasley, che correda i volumi da lui curati con gli apparati delle varianti, fornendo un quadro preciso delle tappe della stesura testuale, di Reuß e Staengle, che pubblicano i manoscritti in copia fotostatica con trascrizione diplomatica a fronte, ponendo problemi più generali di ecdotica dei testi moderni, per dare finalmente respiro alla scelta definitiva della centralità del testo e della sua complessa e multipla ermeneutica, in grado di muoversi dialetticamente tra distanza e vicinanza al nostro tempo, trattandosi un’opera eccezionale, che è una delle metafore più geniali della storia della letteratura.

(2 – continua)

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