Il Potere come attributo dell’ente demoniaco

Con questo terzo capitolo su "Fenomenologia del Potere nei regimi totalitari: forza ubiquitaria, funzione coercitiva, apparenza anonima", si conclude il saggio del professore Alberto Granese sul Castello di Kafka. Uno studio che, nel centenario della morte del grande scrittore, recupera i temi di fondo della poetica kafkiana soprattutto con riferimento alla proiezione mitica del male che è in noi e al valore della letteratura. Quest'ultima si rivela in grado di sciogliere, almeno in parte, i nodi dei tortuosi intrighi con cui si manifesta la violenza del potere nella storia dell'umanità

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La forza talvolta insondabile del Potere e lo sforzo dell'uomo di comprenderne le dinamiche

3. Fenomenologia del Potere nei regimi totalitari: forza ubiquitaria, funzione coercitiva, apparenza anonima

Attraverso la descrizione minuta delle gerarchie e delle loro tecniche di dominio, distribuite su un piano pluridimensionale, la manifestazione delle possibilità combinatorie del linguaggio, in grado di definire le diverse e sfuggenti sfaccettature del Potere e la vera natura delle sue strutture comunicative, appare evidente che Kafka è uno scrittore indubbiamente sensibile alle ingiustizie sociali e, in tal senso, dotato di una visione “politica”. In tal modo, descrivendo i perversi meccanismi di autoriproduzione del Potere e procedendo con una trascrizione in “concatenamento”, ne smonta i concatenamenti stessi in maniera iper-realista e comico-politica (Deleuze-Guattari), ne smaschera il funzionamento autoritario, in cui emergono la sua finalità autoreferenziale, l’inutilità e la falsa razionalità del sistema gerarchico, l’ingannevole efficienza messa in atto al solo scopo di prevaricazione e occultamento di una violenza strutturale, se pure non esibita direttamente. Di qui l’idea di fondo di un’istanza politica nella scrittura di Kafka, in cui la vecchia monarchia absburgica, da lui conosciuta e tenuta presente, acquista nel suo profetico immaginario quei caratteri oggettivi e diabolici che saranno propri del fascismo.

Riscoprire Kafka a cent’anni dalla morte: un’irresistibile necessità di penetrarne la poetica e il pensiero

Il Potere, quindi, in senso più generale, è forza catalizzatrice e irresistibile, che invade con i suoi tentacoli infiniti ogni cosa, che riesce a creare particolari atmosfere inquietanti e richiede la subordinazione alle sue regole di chi lotta per ottenerlo. In senso formale appare sempre meno connesso con i bisogni umani; vi sono, pertanto, poteri, difficili non soltanto da comprendere, ma anche da individuare: infatti, secondo Ferrarotti, in Una sociologia alternativa, «uno dei poteri più insidiosi del potere consiste nel potere di nascondersi, di agire indirettamente, senza esporsi». Nessuno può dire cosa in realtà esso sia: il potere è tabù; si possono dare dei resoconti formali, ma la sua essenza rimane mobile, sfuggente.

Il Potere ha due ottiche differenti: o è rapporto interpersonale, oppure è caratteristica oggettiva di un dato sistema sociale. A causa della complessità che avvolge la sua natura, può essere visto in modo fuorviante: spesse volte come se in realtà non esistesse, altre, come forza demoniaca o come una sorta di brutto sogno. I meccanismi di coercizione, pressione, manipolazione garantiscono il potere: esso si centralizza; il controllo delle decisioni importanti si concentra nelle mani di pochi gruppi ristretti, che cercano di favorire soltanto il loro tornaconto personale, relegando in secondo piano i bisogni primari dei cittadini, per cui «la facoltà di decidere acquista l’apparenza di un processo razionale, anonimo, depersonalizzato».

Forza irresistibile

che arriva improvvisa

Un’altra grande incognita è sapere chi esercita il potere e dove lo esercita. Nessuno ne è titolare in senso stretto, ma, dovunque è presente, sembra che si eserciti attraverso collegamenti e istanze, spesso infime, di gerarchia, di controllo, di sorveglianza, d’interdizione e costrizione. È un potere che «si esercita», piuttosto che non lo si possieda; non si applica puramente e semplicemente come un obbligo a quelli che «non lo hanno»; esso, dunque, penetra nello spessore della società e non si localizza solo nelle relazioni fra lo Stato e i cittadini.

Nella sorveglianza gerarchizzata il Potere, per il Foucault di Sorvegliare e punire, «non si detiene come una cosa, non si trasferisce come proprietà: funziona come un meccanismo»; ciò gli permette di essere «dappertutto e sempre all’erta e, perché non lascia, in linea di principio, alcuna zona d’ombra, controlla senza posa quelli stessi che sono incaricati di controllare». Il Potere viene, quindi, rappresentato come forza ubiquitaria, come qualcosa di onnipresente; non per il privilegio di raggruppare tutto sotto la sua «invincibile unità», ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto: «Il potere è dappertutto; non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove». Non è un’istituzione, non è una struttura, ma è «il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data», così come sostenuto anche in La Volontà di sapere.

Genesi e gestione

di società totalitarie

Potere e sapere si implicano strettamente: ogni volta che si creano relazioni di potere non si può non costituire in diretta correlazione un campo di sapere e, viceversa, quest’ultimo dovrà necessariamente supporre e istituire relazioni di potere. La «verità», quindi, per il Bourdieu di Campo del potere e campo intellettuale, è essa stessa potere. Il potere autocostituitosi come verità genera la società totalitaria dell’antiutopia, in cui o la mostruosa «isola del dr. Moreau» dell’omonimo romanzo di Wells o la società di Zamjatin in Noi o il Mondo nuovo di Huxley o Buio a mezzogiorno di Koestler e soprattutto il Grande Fratello in 1984 di Orwell, il cui antecedente nella letteratura europea è il Dostoevskij dei Demoni e dei Fratelli Karamazov (soprattutto per la figura del grande Inquisitore), potrebbero rappresentare la nuova barbarie, quella del Lager e del Gulag, perpetrata nella prima metà del secolo scorso.

Proiezione mitica

del male che è in noi

Il Potere è un tradizionale attributo dell’ente demoniaco, ma anche un dono che Satana ha elargito all’uomo pronto a dannarsi. Dal Mefistofele goethiano allo schermo «demoniaco» dei maestri dell’espressionismo corre un filo rosso, una lezione di alto prestigio intellettuale, di cui la cultura mitteleuropea del primo Novecento subisce prepotentemente il fascino, anche se la costruzione immaginaria del demoniaco è propria di ogni secolo, età, etnia. La vera questione del diavolo, infatti, non è né religiosa, né fantastica, ma essenzialmente antropologica: la sindrome demoniaca ha sempre sovrastato l’umanità, perché l’universale fantasma di Satana è una concezione mitica, proiettata all’esterno, del male che è in noi. Le lugubri fantasie medievali raffiguravano il demonio come presenza corposa e visibile per poterlo meglio dominare, dissolvendo in un’immagine conosciuta e concreta l’enigma inafferrabile del male, secondo Di Nola.

Nella fase attuale della storia umana si demonizza quel Potere che, dal volto diabolicamente non identificabile, regge le società totalitarie, limitando la libertà e l’autonomia degli individui, nei quali genera il terrore. Il Potere e il “senso della fine” di una civiltà sono i simboli demoniaci delle inquietudini e delle paure, che vanno intese non in uno specifico senso spazio-temporale, ma in un’accezione più generale. Forse non esiste e non è mai esistita per Delumeau di La paura in Occidente, una società senza paura: dalla paura primordiale delle grandi ombre notturne, del nuovo e dello sconosciuto a quella della vendetta divina, di Satana, della donna strega e anche, più avanti nei secoli, della peste, delle epidemie, del dominio dei popoli islamici sulla Cristianità.

Immaginario collettivo

e morte della paura

Prima tra queste paure, spesso inconfessate, quella della morte; subito dopo, individuale e collettiva, quella escatologica e millenaria dell’imminente fine del mondo, come sostenuto da alcuni studiosi, da Ariès a Baudrillard. La società, che non ha paura, ha di fatto rimosso la paura. L’Unheimliche, che è in noi, compie le sue irruzioni dai labirinti profondi e insondati della psiche: siamo schiacciati, come aveva intuito Freud, tra l’ansia e il terrore; abbiamo bisogno di immaginare scene terrificanti per esorcizzarle e farci trovare preparati quando queste possono realmente accadere. L’immaginario della paura prova sollievo dinanzi alla morte collettiva: catastrofi, calamità ecologiche, collassi atomici sono i più privilegiati.

Atmosfera allucinata, perversa, da incubo; senso di oppressione e di mancanza di libertà, prodotto dall’apparato di solerti ed enigmatici funzionari, che detengono di fatto il potere nel Castello; indifferenza e inospitalità diffidente degli abitanti del villaggio, che spiano e sfuggono il protagonista; clima di sospetto e di delazione; andirivieni di messaggeri e messaggi, che non concludono mai un incontro decisivo. Il Castello, quindi, oltre alle affinità profonde con Il processo, rappresenta, forse ancor meglio, il Potere, inteso come meccanismo complesso, indecifrabile e inafferrabile, gestito dalla compagine burocratica, che vi opera, per cui i termini ricorrenti di «Angst» (“paura”), «Ängstlichkeit der Leute» (“paura della gente”), solo in apparenza, immotivata, denunciano un rapporto con il reale non mai esplicito, ma sempre obliquo, allusivo, ambiguo, tanto che l’identificazione storica della comunità rappresentata nel romanzo risulta altamente problematica.

Violenze storiche

insite negli eventi

Il potere ha il suo fondamento anche sulla violenza, come fattore insito nella storia. Le violenze della storia sono quelle interne agli stessi eventi, connaturate e organiche ad essi; i comportamenti violenti sono un naturale portato della storia, che appunto da questi è stata sempre materiata e formata: in tal senso il genitivo («della storia») è soggettivo e tutta l’espressione si riferisce ai contenuti, ai fatti della diacronia evenemenziale. Lo scrittore può fare tuttavia gravi «violenze» alla natura peculiare e irripetibile delle vicende «della storia»: in questo senso il genitivo è oggettivo e il sintagma si riferisce alle forme, ai moduli narrativi, alle strutture compositive, alle deformazioni stilistiche e ai pastiches linguistici, ossia agli strumenti specifici e tecnico-espressivi con cui vengono inevitabilmente violentati gli avvenimenti storici. In questa accezione particolare le violenze della storia finiscono per diventare storie di violenza, ossia racconti, sul piano letterario, degli aspetti e delle forme, dell’epifania, insomma, della violenza, che a livello molecolare pervade qualsiasi realtà, naturale, umana e storica, lungo un ininterrotto asse spazio-temporale.

Tortuosi intrighi

e antidoto letterario

Kafka, nei confronti del suo protagonista, K., è narratore eterodiegetico, che pone sullo stesso livello fatti irreali/virtuali e fatti insiti nella logica del reale, attribuendo loro un identico statuto di credibilità sul piano della logica narrativa (coincidente con quello della plausibilità realistica), e facendo penetrare l’assurdo talmente in profondità nel tessuto della realtà oggettiva da farlo identificare con essa. I complicati e perversi meccanismi della società totalitaria, che sommerge la libertà dei personaggi, i sofisticati e tortuosi intrighi, adoperati dal Potere per autoriprodursi, trovano un’adeguata espressione, attraverso gli strumenti specifici del linguaggio letterario, nei congegni stessi delle strutture narrative, oltre che nel comportamento circospetto dei personaggi e delle atmosfere inquietanti, perché Kafka ha raggiunto un perfetto isomorfismo tra l’oggetto del discorso e la sua formalizzazione estetica, tra ciò che scrive e come lo scrive. Proprio da questo, dal soggetto del narrare e dalla sua efficace traduzione espressiva a livello di scrittura, deriva la giusta e imprescindibile necessità di considerare Kafka come il massimo rappresentante della narrativa modernista non solo europea.

 

(3 – fine)

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Nelle aree antistanti il Castello c’è il codice kafkiano dei gesti