Il 3 giugno di cento anni fa, 1924, moriva a Kierling (Vienna) Franz Kafka (era nato a Praga il 3 luglio 1883). L’autore ha lasciato una traccia indelebile nella letteratura e nella storia contemporanee per la sua scrittura lucida e realistica nei dettagli, con la quale è riuscito a tratteggiare fatti inauditi come momenti assolutamente quotidiani. Artista solitario e tragico, logico e trascendente, Kafka è l’autore di creazioni visionarie proprio come Praga, luogo inseparabile dalla sua produzione. Con questa analisi del suo capolavoro, Il Castello, che proponiamo ai nostri lettori, il professore Alberto Granese, già docente di Letteratura italiana presso l’Università di Salerno che ringraziamo per quest’omaggio a RQ-Resistenze Quotidiane, ne ricorda, in occasione del centenario della morte, l’eccezionale statura artistica, tanto che oggi nella Weltliteratur Franz Kafka è considerato il paradigma stesso della Modernità. (I testi citati sono rigorosamente in originale: non si può prescindere dalla cristallina e trasparente bellezza della prosa kafkiana, osserva in proposito l’autore di questo scritto. I testi saranno però sempre accompagnati dalla traduzione italiana). Dividiamo questo saggio in tre parti: dai protagonisti ed eventi invisibili e lontani al grave disturbo provocato da qualsiasi mutamento, anche nelle cose più insignificanti, fino alla fenomenologia del Potere nei regimi totalitari. In essi il Potere si manifesta come forza ubiquitaria, funzione coercitiva e apparenze anonime. Uno studio, quindi, denso di attualità e utile per aprire gli occhi sulla Storia e sugli equilibri geo-politici anche del turbato e instabile mondo di oggi.
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1.Nel Castello: «entlegener unsichtbarer Herren entlegene unsichtbare Dinge» (“Signori lontani e invisibili, cose altrettanto invisibili e lontane”)
«Es war spät abend als K. ankam. Das Dorf lag in tiefem Schnee. Vom Schloßberg war nichts zu sehn, Nebel und Finsternis umgaben ihn, auch nicht der schwächste Lichtschein deutete das große Schloß an. Lange stand K. auf der Holzbrücke die von der Landstraße zum Dorf führt und blickte in die scheinbare Leere empor» (“Era sera tardi quando K. arrivò. Il villaggio era sprofondato nella neve. Il monte del Castello era invisibile, nebbia e oscurità lo circondavano, nemmeno la più debole luce lasciava distinguere il grande Castello. K. rimase a lungo in piedi sul ponte di legno che dalla strada portava al villaggio, scrutando in quel vuoto apparente”): è il celebre incipit del romanzo Das Schloß, esemplare straordinario del cosiddetto stile “tardo” (Spätstil) di Franz Kafka, il suo capolavoro, come giustamente sostenuto dal suo maggiore studioso italiano, Giuliano Baioni.
Nel clima culturale
tra le due guerre
A differenza di Der Prozeß, che è dell’agosto 1914-gennaio 1915, Das Schloß, Il Castello, essendo il romanzo incompiuto a cui lo scrittore praghese lavorò fra il 1921 e il 1922 (pubblicato postumo a Monaco nel 1926 – come del resto, nel 1925, Il processo – dall’amico e biografo Max Brod), si inserisce perfettamente nel clima culturale tra le due guerre, soprattutto in quello immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale. Il processo uscì a Berlino, dopo la morte di Kafka avvenuta il 3 giugno 1924, un mese prima del suo quarantunesimo compleanno. Max Brod è anche autore di una monografia kafkiana, uscita a Praga nel 1937, tradotta in italiano da Mondadori nel 1956; ma, per le edizioni critiche di Der Prozeß, si è fatto riferimento a quella di M. Pasley, uscita a Frankfurt a. M., presso Fischer Verlag, nel 1990, e all’altra di R. Reuß e P. Staengle, pubblicata a Basel/Frankfurt a. M., presso Stroemfeld-Roter Stern, nel 1997.
Il protagonista di Das Schloß, l’agrimensore K., che filtra sugli eventi del romanzo la sua esperienza e le sue riflessioni raccontate da una voce narrante eterodiegetica a focalizzazione interna, poco dopo essere arrivato a tarda sera in un villaggio sconosciuto quasi tutto affondato nella neve, comincia ad avvertire l’angoscia di dover vivere in una società oppressiva, in cui non si è nemmeno liberi di agire secondo il proprio modo di pensare. Tenta disperatamente di inserirsi nella vita del paese dominato dal grande Castello, di affermare la sua personalità in un clima inospitale e rigido, di essere libero, nonostante i dettami di un’autorità che si erge ad arbitro della sorte degli uomini: «K. wußte, daß nicht mit wirklichem Zwang gedroht war, den fürchtete er nicht und hier am wenigsten, aber die Gewalt der entmutigenden Umgebung, der Gewöhnung an Enttäuschungen, die Gewalt der unmerklichen Einflüsse jedes Augenblicks, die fürchtete er allerdings, aber mit dieser Gefahr mußte er den Kampf wagen» (“K. sapeva che non lo minacciavano vere costrizioni, di queste non aveva paura, soprattutto nel caso presente; temeva invece la potenza di un ambiente scoraggiante, l’abitudine alle delusioni, la violenza degli influssi imponderabili che avrebbe subito ad ogni momento, ma contro questo pericolo doveva arrischiare la lotta”). Non è il caso di soffermarci sui riflessi biografici del romanzo, soprattutto sulla relazione di Kafka con Milena Jesenská (in crisi nel 1922, proprio durante la sua stesura), per non ridurre Il Castello a un romanzo a chiave.
Una cappa d’angoscia
avvolge il villaggio
Come straniero si sentiva oggetto di curiosità da parte degli abitanti del villaggio: «ihre hartnäckige Teilnahme schien ihm böser als dieVerschlossenheit der andern (“la loro tenace curiosità gli pareva più malvagia della riservatezza degli altri”)». Una cappa d’angoscia avvolge il villaggio, dove i rapporti umani sono dominati dall’estraneità, dalla solitudine, dalla diffidenza e dall’indifferenza reciproche: una situazione che sembra analoga alla colpa ignota per cui è accusato da un imprecisato Tribunale e arrestato Josef K., il protagonista di Il processo, secondo un procedimento tipico della narrativa kafkiana di connettere l’anonimato esistenziale della civiltà moderna con l’anonimato burocratico, l’irrazionale apparato ultrarazionalistico della società borghese. Nonostante ogni azione venga compiuta senza urtare minimamente la suscettibilità dei funzionari del Castello, il soggiorno dell’agrimensore K. è turbato, fin dai primissimi giorni, dal sospetto e dalla diffidenza che sente su di sé: «Sie lauern mir fortwährend auf, es ist sinnlos, aber abscheulich (“Non fanno altro che spiarmi; è una cosa stupida, ma insopportabile”)». Gli uomini che vivono nelle società rette da un regime totalitario non hanno niente di personale, sono legati persino dai loro stessi sentimenti. Il pericolo incombe ovunque; tutti hanno l’aria di investigare e di controllare.
Ostinazione e impazienza
per raggiungere la meta
Questo clima di alienazione e di sospetto, quasi ai confini della realtà, è tipico dell’ambiguo villaggio in cui si svolge la vicenda narrata da Kafka. Il protagonista cerca di liberarsi dalle insidie, dai timori, ma subentra un elemento che rende inefficace qualsiasi sforzo di evasione. Le costanti del carattere di K. sono l’ostinazione e l’impazienza di raggiungere la sua meta, sia pure in mezzo a un groviglio di difficoltà, anche se non si lascia ridurre a una cifra precisa, a un profilo identitario attribuibile in base alle funzioni di volta in volta espletate, tanto che diverse e distanti sono le interpretazioni della sua individualità, dovute al fatto che è improduttivo ritenere la sua complessa psicologia analoga a quella di un personaggio del romanzo tradizionale, per cui potrebbe essere, di volta in volta, un uomo che lotta contro l’ingiustizia, un cavaliere alla ricerca di un suo Graal, un calunniatore, un impostore, un manipolatore tracotante (agrimensore: Landvermesser, termine connesso a Vermessenheit, “tracotanza”), ostinato a fare violenza alle Leggi del Castello, a scoprire in che modo esserne ammesso, precludendosi così la Grazia (secondo l’interpretazione in chiave teologica di Max Brod), ostacolandola e così negando la sua disponibilità a essere scelto, a rispondere affermativamente all’improvvisa “chiamata”: elementi giustificati in molti punti del testo, ma non tutti raffrontabili in maniera completa. Baioni, in Kafka: letteratura ed ebraismo, pone l’accento sulla «l’ambivalenza del protagonista del romanzo. Uomo di una doppiezza pari solo alla sua pretesa ingenuità – le domande, gli interrogatori, le interviste che fa agli abitanti del villaggio e ai funzionari del Castello lo mostrano sempre sorpreso e sprovveduto, quando in realtà, con l’ingenuità delle sue domande, vuole mettere in luce l’assurdo dell’organizzazione e della Legge – l’agrimensore K. infatti dichiara di essere vittima di un sopruso. Tutta la sua ricerca sembra essere diretta ad ottenere dalle autorità il permesso di vivere nel villaggio, In realtà, il suo conclamato desiderio di giustizia è a ben guardare un mezzo per soddisfare il diabolico narcisismo della sua volontà di sapere. La sua vera intenzione non è di radicarsi nel villaggio, ma di arrivare – con l’aiuto di tutti e persino con il consenso delle autorità – fino alla suprema istanza della verità per esserne il solo padrone».
Individui schiacciati
come in una macchina
In realtà Kafka, pur essendo attratto dalle parabole, ammirando le scuole talmudiche, frequentando il teatro jiddisch di Praga, tendeva in parte a mascherare i suoi problemi religiosi, peraltro sempre connessi ai sociali, soprattutto nei confronti del proletariato ebraico, per cui i protagonisti dei suoi maggiori romanzi, Josef K. del Processo e l’agrimensore K. del Castello, non accettano la divina “chiamata” della Giustizia per loro incomprensibile e della Grazia altrettanto incommensurabile (nel racconto: di un Tribunale invisibile e di una Burocrazia irraggiungibile), ritenendola ambigua, insidiosa, inumana, e tendono a ripetere, come in un circolo labirintico, applicando un personale e falso metro di giudizio per giungere alla verità, le stesse azioni, anche se queste sono narrativamente rese in una prosa geometricamente ordinata, che descrive l’impossibile a guisa di un realissimo possibile, dove traspare una sofistica sottigliezza etico-giuridica, in grado di proporre un intreccio di linee diegetiche opposte e complicate, esaminate nei loro minuti particolari con una tecnica ermeneutica affine alle esegesi talmudiche. Pur tenendo conto di questa solida ipotesi interpretativa è altrettanto imprescindibile considerare che la presenza di protagonisti, nei due principali romanzi kafkiani, ridotti a sigle implica il richiamo ai grandi complessi statali e industriali, in cui, come nell’ingranaggio di una cieca macchina, gli individui vengono schiacciati, isolati, allontanati dal consorzio civile, resi impotenti dinanzi ai reali detentori del potere e inabilitati a chiedere giustizia sociale.
Percorsi unidirezionali
dall’alto verso il basso
Tenendo presenti i capitoli da otto a dodici, che non solo rientrano nei soli quindici elencati direttamente dall’Autore, ma presentano un corrispondente e cospicuo numero di passi da lui soppressi, segno questo di una controllata e attenta elaborazione, è possibile enucleare alcuni punti chiave che rappresentano altrettanti tasselli di senso in grado di aprire un varco sia verso una interpretazione in chiave metafisica, la Grazia o la Misericordia, intesa come “chiamata”, percorso unidirezionale, dall’alto verso il basso, escludente qualsiasi tipo di autonoma collaborazione, libera scelta, tensione in direzione opposta, sia il volto indecifrabile di un Potere assoluto, tale da agire diabolicamente e in maniera apparentemente illogica sui sudditi da inattingibili e inavvicinabili sfere superiori, senza degnarsi di riceverne le istanze di partecipazione agli atti decisionali. Da questi nuclei testuali, esaminati in successione, emerge in maniera fin troppo evidente la polisemia kafkiana, l’impossibilità di una scelta ermeneutica decisiva e univoca, che possa fare propendere per l’uno e l’altro polo di riferimento; ma, proprio per questa ragione, a seconda dell’angolazione prospettica del lettore, l’una e l’altra interpretazione sono egualmente valide. Del resto, questi slittamenti di senso possono verificarsi all’interno di un contesto storico o di un quadro letterario in cui l’Autore compone o decide di utilizzare in uno o in un altro spazio diegetico uno stesso scritto. Come, ad esempio, è stato interpretato ˗ pur tenendo conto dei risultati esegetici di esperti studiosi, da Strother B. Purdy a Hartmut Binder ˗ un famoso racconto di Kafka, Vor dem Gesetz (Davanti alla legge) che, se inserito, come parabola o leggenda, all’interno del capitolo, «Nel Duomo», del romanzo, Il processo, ha un significato, ossia il rapporto fra l’individuo e la legge, secondo com’è presentato al protagonista, Josef K., dal sacerdote, se invece lo si legge insieme con gli altri racconti di Ein Landarzt (Un medico di campagna), in cui essenziale è il tema del tempo, potrebbe acquistare un altro significato, quello dell’attesa dell’uomo di campagna e soprattutto della irraggiungibilità della meta, motivo fondamentale, in questo caso, proprio di Il Castello, secondo la tesi sostenuta da Luca Crescenzi nell’edizione di Il medico di campagna, da lui commentata e uscita da Mondadori nel 2023.
Il valore insensato
di libertà e attesa
Dal titolo stesso dell’ottavo capitolo, «Aspettando Klamm», si evince il contenuto: si narra dell’attesa, nel cortile dell’Albergo dei Signori, del potente e irraggiungibile alto funzionario del Castello, capo della decima sezione, dal claustrofobico nome (“klamm”, in tedesco, vale ‘stretto’, ‘rigido’), da parte dell’agrimensore K.; risultata alla fine vana, tuttavia, paradossalmente e nello stesso tempo, a lui sembrava che, nonostante gli sforzi per sostare in un luogo proibito e la consapevolezza dell’assoluta libertà della sua scelta ˗ e questa convinzione era almeno altrettanto forte ˗ non ci fosse niente di più insensato, di più disperato di quella libertà, quell’attesa, quell’invulnerabilità («aber – diese Überzeugung war zumindest ebenso stark – als gäbe es gleichzeitig nichts Sinnloseres, nichts Verzweifelteres als diese Freiheit, dieses Warten, diese Unverletzlichkeit»). Caratteristica, dunque, della psiche profonda del protagonista, che pare riflettere la straniante dimensione del luogo sconosciuto in cui si trova e dell’ambiguo, all’inizio ostile, comportamento dei suoi abitanti, è la contraddizione, come si evince da un altro passaggio chiave; nel capitolo decimosecondo, alla richiesta di Frieda, sua amante occasionale, ma conquistata per avvicinare Klamm, di lasciare quel borgo inospitale e di andare ad abitare in altre nazioni europee, seguono queste risposte: «Auswandern kann ich nicht», sagte K., «ich bin hierhergekommen, um hier zu bleiben. Ich werde hier bleiben». Und in einem Widerspruch, den er gar nicht zu erklären sich Mühe gab, fügte er wie im Selbstgespräch zu: «Was hätte mich denn in dieses öde Land locken können, als das Verlangen hier zu bleiben?» (“Non posso andar via”, disse K. “sono venuto qui per rimanerci. Io resterò qui”. E con una contraddizione che non si diede affatto la pena di spiegare, aggiunse come parlando a se stesso: “Cos’altro mai avrebbe potuto attirarmi in questa landa desolata, se non il desiderio di rimanerci?”). Sembra che per K. valga uno degli Aforismi di Zürau, il quinto, che si trascrive nella limpida traduzione di Roberto Calasso: «Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Oltre un centinaio di questi aforismi, anche sotto forma di parabole o di brevi racconti, furono scritti da Kafka mentre soggiornava presso la sorella Ottla a Zürau, piccolo borgo della campagna boema, pochi anni prima del Castello, tra il 1917 e il 1918.
L’insostenibile presenza
di tramiti e intermediari
Questo aspetto contraddittorio, paradossale, apparentemente insensato affiora in maniera insistente nel capitolo nono, con al centro la lotta di K. contro il suo interrogatorio, che dovrebbe condurre e verbalizzare il potente segretario, plenipotenziario di Klamm e parte integrante della sua ristretta cerchia, dal nome bizzarro di Momus, lo stesso del dio greco della maldicenza, ma in presenza dell’ostessa che si atteggia a interprete e intermediaria della volontà dei signori del Castello e dell’enigmatico e invisibile suo padrone assoluto, il conte Westwest. Alternandosi nel colloquio, urtando contro la normale logica del comune buon senso, sia Momus che soprattutto l’ostessa informano l’incredulo e sempre più diffidente K. che Klamm «gewiß wird mit jemandem, mit dem er nicht sprechen will, niemals sprechen, so viel Mühe sich auch dieser Jemand gibt und so unerträglicher sich vordrängt (“sicuramente non parlerà mai a qualcuno con cui non vuol parlare, a dispetto degli sforzi di questo qualcuno e della sua importuna insistenza”)»; ma il solerte segretario deve comunque ricevere scritte in verbale tutte le richieste a lui rivolte dagli abitanti del paese. Queste pretese di Momus urtano contro il vero desiderio di K., il suo unico scopo che consiste nel non avere intermediari, ma nel fatto di poter arrivare lui, K., soltanto lui con le sue richieste, e non quelle di un altro, fino alla presenza di Klamm, e non per restargli accanto, ma per passargli avanti e giungere fino al Castello («sondern daß er, K., nur er, kein anderer mit seinen, mit keines andern Wünschen an Klamm herankam und an ihn herankam, nicht um bei ihm zu ruhen sondern um an ihm vorbeizukommen, weiter, ins Schloß»).
L’incomunicabilità
con le gerarchie
Questi desideri dell’agrimensore K. sono incompatibili con quanto gli è stato detto: con Klamm, con le alte gerarchie del Castello non è possibile nessuna comunicazione e tanto meno sperare di avvicinare l’uno per potere penetrare nell’altro; su questo l’ostessa, che affianca Momus, è inflessibile: «Ich sage ihm seit jeher, heute und immer, daß er nicht die geringste Aussicht hat von Klamm empfangen zu werden, nun wenn es also keine Aussicht gibt, wird er sie auch durch dieses Protokoll nicht bekommen. Kann etwas deutlicher sein? Weiters sage ich, daß dieses Protokoll die einzige wirkliche amtliche Verbindung ist, die er mit Klamm haben kann, auch das ist doch deutlich genug und unanzweifelbar» (“Gli ho detto e ripetuto, oggi e sempre, che non ha la minima probabilità di essere ricevuto da Klamm, dunque, se questa probabilità non esiste, neanche il verbale gliela può dare. Si può parlar più chiaro? D’altra parte, gli ho detto che il verbale è l’unico vero rapporto ufficiale ch’egli possa avere con Klamm. Anche questo è abbastanza chiaro e indiscutibile”).
Quando però K. vuole approfondire, forse con qualche residuo di speranza, in che modo il verbale potrà consentirgli un “rapporto ufficiale” con l’alto funzionario, dal momento che non gli è consentito di incontrarlo direttamente, la risposta, questa volta proprio di Momus, è raggelante, chiude qualsiasi tipo di contatto anche indiretto, l’eventuale percorso dal paese al Castello, dal basso verso l’alto, è del tutto interrotto, semplicemente, non esiste: «Wird denn, Herr Sekretär», fragte K., «Klamm dieses Protokoll lesen?» «Nein», sagte Momus, «warum denn? Klamm kann doch nicht alle Protokolle lesen, er liest sogar überhaupt keines, “Bleibt mir vom Leib mit Eueren Protokollen!” pflegt er zu sagen» (“Signor segretario”, chiese K., “Klamm leggerà quel verbale?” – “No”, disse Momus, “a che scopo? Klamm non può leggere tutti i verbali, anzi non ne legge mai nessuno. ‘Lasciatemi in pace con i vostri verbali!’ dice sempre”).
Questa sorprendente risposta del segretario Momus, che proietta una luce sinistra sul comportamento del suo diretto superiore Klamm, appare subito a K. niente più che una bizzarria di questi alti funzionari dell’amministrazione comitale, fino al punto da indurlo a non sottoporsi all’interrogatorio e a non accettare la stesura del relativo verbale, ritenuti del tutto inutili, come chiarisce, prima di andar via e uscire in strada, all’oste: «Ich wüßte nicht», sagte K., «warum ich mich verhören lassen solle, warum ich einem Spaß oder einer amtlichen Laune mich fügen sole» (“Non so proprio” disse K., “perché dovrei lasciarmi interrogare, perché dovrei prestarmi a una celia o a un capriccio dell’amministrazione”). Comincia però ad avere sospetti seri e fondati che non si tratta di capricci o di celie, per cui quanto affermato da Momus risulta vero, quando ha un riscontro con le dichiarazioni del messaggero del castello, Barnabas che, rimproverato da K, per non avere riportato una sua ambasciata a Klamm, risponde in termini non meno sorprendenti e assurdi rispetto a quelli pronunziati, poco prima, dal segretario dell’alto funzionario: «Klamm wartet doch nicht auf die Nachrichten, er ist sogar ärgerlich wenn ich komme, «wieder neue Nachrichten» sagte er einmal und meistens stehter auf, wenn er mich von der Ferne kommen sieht, geht ins Nebenzimmer und empfängt mich nicht. Es ist auch nicht bestimmt, daß ich gleich mit jeder Botschaft kommen soll, wäre es bestimmt, käme ich natürlich gleich, aber es ist nicht darüber bestimmt und wenn ich niemals käme, würde ich nicht darum gemahnt werden. Wenn ich eine Botschaft bringe, geschieht es freiwillig» (“Klamm non è in attesa delle notizie, anzi s’arrabbia quando io arrivo. “Ancora notizie!” ha esclamato una volta, e per lo più, quando di lontano mi vede venire, si alza, va nella stanza accanto e non mi riceve. D’altronde io non ho ordine di portargli subito ogni messaggio, se fosse così naturalmente ci andrei senza indugio, ma non c’è niente di stabilito, e se non andassi mai al Castello nessuno mi richiamerebbe al dovere. Quando porto un’ambasciata, lo faccio di mia spontanea volontà”).
Solo ordini e segnali
non sempre decifrabili
Avendo finalmente appreso che interrogatori, verbali, messaggi, quindi, che nessuna comunicazione, nessun contatto erano possibili con i vertici dell’amministrazione comitale, se non ordini e segnali, per lo più non subito e non interamente decifrabili, K. comincia ad avere la sensazione dell’enigmatica esistenza di un’Alterità insondabile non percepibile con il senso comune, non attingibile nei suoi connotati concreti, solo vagamente immaginati, ma coglie con altrettanta consapevolezza che i messaggi, gli scambi erano possibili solo se provenienti dall’alto, dal dominante Castello, ma non da tutta la grama umanità che si agitava nel sottoposto villaggio. Bisognava solo attendere ed eseguire, non prendere iniziative autonome, anche perché questa Alterità, questa dimensione aliena dava l’impressione di avere connotati sfuggenti e perturbanti, introiettati nella figura inquietante dell’ostessa che, avendo «eine intrigante Natur, scheinbar sinnlos arbeitend wie der Wind, nach fernen fremden Aufträgen, in die man nie Einsicht bekam (“una natura intrigante, lavorava, come il vento, senza senso apparente, secondo direttive misteriose e lontane, di cui non si riusciva mai a sapere niente”)». Cos’è questa l’Alterità? Potrebbe essere la Grazia o la Misericordia, ma potrebbe anche configurarsi come un Potere inafferrabile e diabolico.
L’impossibilità
di ogni colloquio
Si spiega, pertanto, secondo un’evidente dimensione polisemica, come in un romanzo strutturalmente polifonico, quale è Il Castello, vada declinata proprio in quest’ultimo senso la ragione che induce il protagonista K. a lottare su due fronti: da un lato, la paura, l’ostilità e la totale indifferenza degli abitanti del villaggio e delle sue autorità; dall’altro, la tenace fermezza degli alti funzionari di non concedergli un colloquio chiarificatore e di deviare le sue richieste, o comunque di persuaderlo delle assurdità delle sue pretese. Il suo diretto antagonista è Klamm, l’enigmatico capo della decima sezione, che, sia pure non desistendo mai dal proposito di parlargli, K. non sarà mai in grado di raggiungere. La figura di Klamm è pervasa di ambiguità e le persone più vicine a K. cercano di convincerlo che non gli potrà mai parlare: «es sind bare Unmöglichkeiten (“sono cose semplicemente impossibili”», proibite, non soltanto a lui, straniero, ma anche a chi vive da sempre nel villaggio; anzi, nessuno può essere sicuro di averlo personalmente conosciuto: è inavvicinabile.
I desideri compressi
dalla volontà altrui
Il protagonista kafkiano si avvede di non essere libero in nessuno dei suoi atteggiamenti, di non possedere niente di personale e di privato; persino i suoi assistenti, Artur e Jeremias, sembrano rispondere più agli ordini dell’ostessa che ai suoi desideri: «Frau Wirtin, es sind meine Gehilfen, Sie aber behandeln sie so, wie wenn es Ihre Gehilfen (“Signora ostessa, quelli sono i miei assistenti, ma lei li tratta come se fossero i suoi”)». Il conte Westwest, proprietario del Castello, e i suoi intermediari impersonano quella gerarchia, a cui è oscuramente demandato di decidere sul destino degli uomini, al di sopra del loro arbitrio e delle loro aspirazioni. Apparentemente il rapporto con l’autorità «war ja nicht allzu schwer, denn die Behörden hatten, so gut sie auch organisiert sein mochten, immer nur im Namen entlegener unsichtbarer Herren entlegene unsichtbare Dinge zu verteidigen (“non era molto difficile, perché l’autorità, per bene organizzata che fosse, non aveva che da difendere in nome di signori lontani e invisibili cose altrettanto invisibili e lontane”)»; ma K. aveva lasciato il paese nativo proprio per libera elezione e «für etwas lebendigst Nahes kämpfte, für sich selbst (“lottava per qualcosa di molto vivo e vicino, per se stesso”)». La presenza di un occulto Potere facilitava le vicende secondarie della sua vita: i suoi detentori non imponevano categoricamente le cose da fare e da non fare, «schalteten hier überhaupt jeden Kampf aus und verlegten ihn dafür in das außeramtliche, völlig unübersichtliche, trübe, fremdartige Leben (“escludevano qualsiasi conflitto e lo relegavano in una esistenza torbida, strana, che era al di fuori della vita ufficiale, di cui era difficile farsi un’idea”)». Il Potere era, però, sempre in agguato, pronto a far soccombere con la sua forza fagocitante la già alienante vita di K.; infatti, poteva accadere, «wenn er nicht immer auf der Hut war, wohl geschehn, daß er eines Tages trotz aller Liebenswürdigkeit der Behörden und trotz der vollständigen Erfüllung aller so übertrieben leichten amtlichen Verpfl ichtungen, getäuscht durch die ihm erwiesene scheinbare Gunst sein sonstiges Leben so unvorsichtig führte, daß er hier zusammenbrach, und die Behörde, noch immer sanft und freundlich, gleichsam gegen ihren Willen aber im Namen irgendeiner ihm unbekannten öffentlichen Ordnung, kommen mußte, um ihn aus dem Weg zu räumen» (“se non stava costantemente in guardia, che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri esageratamente lievi, egli, illuso dal favore che in apparenza gli si dimostra, regolasse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire in pieno, così che l’autorità, con la solita dolcezza e cortesia, quasi a malincuore, ma in nome di un ordine pubblico a lui ignoto, fosse costretta a toglierlo di mezzo”).
L’ordine pubblico
cappa sul villaggio
L’ignoto ordine pubblico, che, come un’inamovibile cappa di piombo, gravava sul villaggio ˗ ricordando in parte le inquietanti vicende raccontate da Kleist nel Michael Kohlhaas (1810), da Kubin in Die andere Seite (1907), da Walser in Der Gehülfe (1907), attraverso il protagonista, Joseph Marti, e in Jacob von Gunten (1909), da Meyrink in Der Golem (1915) ˗, costringeva gli abitanti a essere molto cauti su tutto ciò che facevano, poiché i funzionari del Castello erano molto diffidenti: Sordini «mißtraut nämlich jedem (“sospetta di tutto”)». Anche se ha constatato infinite volte che una persona è degna di fiducia, ne diffida alla prima occasione, come se non la conoscesse. Si deve, dunque, essere molto circospetti nel villaggio: «mit Fehlermöglichkeiten überhaupt nicht gerechnet wird (“non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio”)».
K. continua a desiderare un colloquio con qualche esponente del Castello, ma si rende conto che ci sono più difficoltà di quanto avesse pensato. Lentamente cerca di accattivarsi la simpatia di qualche abitante, ma la sua solitudine si alleggerisce solo per fuggevoli intervalli nel rapporto erotico con Frieda. Tenta più volte di colloquiare con Klamm, nonostante gli sia stata ribadita l’impossibilità materiale di vedere esaudito il suo desiderio, perché questi è inaccessibile, troppo lontano dai suoi problemi meschini. Infatti, «er dachte an seine Ferne, an seine uneinnehmbare Wohnung […] an seine von K.’s Tiefe her unzerstörbaren Kreise, die er oben nach unverständlichen Gesetzen zog, nur für Augenblicke sichtbar (“egli pensava alla sua lontananza, alla sua dimora inaccessibile […] ai suoi cerchi indistruttibili, troppo alti perché K. dal suo abisso li potesse turbare, che descriveva secondo incomprensibili leggi, e che solo per qualche attimo si potevano intravedere”)». La sua invisibile presenza insidia la vita di tutti; tutti agiscono come se fosse sempre in agguato a sorvegliarli.
Abitanti vittime
del bruto Potere
Gli abitanti del villaggio sono abituati ad agire rispettando i dettami del Potere, senza nulla osare per fare mutare corso alle vicende che regolano la loro vita: Barnabas, messaggero di Klamm, dubita persino di conoscerlo, ma non osa interrogare nessuno di quelli che incontra negli uffici del castello, «aus Furcht er könnte durch irgendwelche ungewollte Verletzung unbekannter Vorschriften seine Stelle verlieren (“perché teme di perdere il posto, violando involontariamente qualche regola che ignora”)». L’amministrazione è assisa nel Castello, nella sua impenetrabile grandezza, nel suo ostentato distacco dagli abitanti del villaggio e «die meisten Beamten scheinen in der Öffentlichkeit teilnahmslos (“quasi tutti i funzionari sembrano assenti quando si trovano in pubblico”)». Vorrebbero piegare la volontà degli altri con un solo ordine: è il caso di Sortini che, invaghitosi della popolana Amalia, pensa di ottenerla, solo per la sua carica di funzionario; ma «daß es einen solchen Mißbrauch der Macht gibt (“la possibilità di simili abusi del Potere”)» desta orrore nel cuore della gente onesta. Proprio per avere osato contrastare un ordine di un fautore del potere, la famiglia Barnabas, di cui faceva parte Amalia, cade in miseria e, anziché avere aiuto e fiducia dagli abitanti del villaggio, anch’essi in condizione di sudditanza rispetto al castello, li vede allontanarsi sempre di più. La condizione della famiglia di Barnabas potrebbe anche riflettere quella delle popolazioni ebraiche europee del tempo, costrette all’esclusione o all’emigrazione da un luogo all’altro a causa delle frequenti manifestazioni di antisemitismo.
Da Olga, infatti, sorella di Barnabas e di Amalia, K. viene a sapere non solo della condizione di esclusi in cui vivono lei e i suoi familiari, dei dubbi di Barnabas, messaggero del Castello, sulla stessa identità di Klamm, ma anche della vicenda che ha determinato l’esclusione della sua famiglia dalla vita del villaggio, cominciata dall’interesse di Sortini, impiegato del Castello, per Amalia, minacciata da una sua lettera ignobile di raggiungerlo alla Locanda dei Signori per avere con lei un rapporto sessuale, ma questa, indignata, rifiuta. Il racconto prosegue con la successiva e conseguente esclusione della famiglia dal villaggio; viene citato per contrasto il caso di Frieda, che si è invece adattata al suo ruolo di amante nei confronti di Klamm. Seguono i lunghi e penosi tentativi del padre per ottenere dai funzionari del Castello il perdono per una colpa della quale, tuttavia, questi sembrano o si mostrano ignari. Olga cerca almeno di rintracciare il messaggero che Amalia ha insultato gettandogli in faccia la lettera fatta a pezzi: per ottenere questa informazione, si prostituisce con gli inservienti del Castello nelle stalle della Locanda dei Signori, ma inutilmente, anche se cerca almeno di far assumere il fratello Barnabas come messaggero.
(1 – continua)