Maria Grazia Insinga. Quando a sciamare è la misura dell’essere

Una fiammante raccolta, un salto nell’acqua limpida dell’essere, dove si esce, si migra, ci si riunisce per quell’unica salvezza che è imparare a zoppicare

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duchesca: il mondo a partire dalla scena/era già segnato così invisibile barcollante/inaudito oltremodo primordiale/
appena prima della cosa era voce/un lungomai lunghissimo oltremondo/un terreo moto uno sciame un sisma.

(Maria Grazia Insinga, A Sciame, Arcipelago itaca Edizioni, pag. 90)

Dopo il precedente Tirrenide, Anterem Edizioni, la poetessa Insinga torna con un’altra meraviglia poetica. Libro diviso in tre parti, La stanza dell’acqua, La testa che parla, Nel nome del giglio. E libro che si unisce al precedente in maniera inequivoca e precisa: paradossale, musicale, necessaria e imprudente, ma nel senso di un’affinità compositiva e ponderata, addirittura accorta e sostanzialmente inaccessibile, distante.

è tutto fuori
dalla nostra portata:
la voce dritta dall’inferno/senza alcun desiderio/di codifica del mondo/ disambigua: è chiaro/non devi sapere nulla/per rimanere in vita.

Due libri, o lo stesso libro, che sono itinerario di una scrittura che è semplicemente scrittura. E che per tale motivo sembra si prefiguri ambigua, enigmatica, impraticabile, indeterminata, vaga. Una scrittura senza nessuna logica apparente, ma che per questo ne acquisisce molte che mai avremmo potuto immaginare di attraversare. Sì, perché qui non si tratta soltanto di passare, di un passo quanto mai irriducibile, tenace, inflessibile, né di generare significato o un oltre che non c’è; qui il guado è solo apparente, e il nulla dove si precipita è lo stesso niente che dice dell’essere, della possibilità di un suo luogo, di un suo dire.

teoria del grande uno: ora sotto l’albero è ancora altitudine/è resuscitare la voce alla radice e per/essere luogo farsi luogo per essere/mezza viva non farsi viva mai più/tanto l’aldilà lo vedi? è nell’aldiquà.

È chiara, nella scrittura dell’Insinga, una matrice intensamente ontologica che mi accordo di rilevare e unire all’altra, parimenti feconda, di potenza musicale. Antonio Devicienti e Giuseppe Martella, eccellenti prefatori, uno di Tirrenide, l’altro di A sciame, citano musicisti di elevate e ricche sonorità come Webern, Scelsi, Kurtág, Ligeti, Berio, per avvicinare quella che è una nutrita scrittura di complessità e dis-armonia. Una scrittura oracolare, sibillina. Una scrittura di limbo, altresì mediterranea, mitica, memorabile e immemore. Tuttavia, meglio non lasciarsi troppo sviare dall’essere la poetessa siciliana, una musicista, una sirenica affabulatrice di misteriosi e seducenti canti, perché in questa nuova raccolta emerge tutta la potenza di una lingua che non è una lingua né un idioma ma l’ossessione di una ragione primaria, di un logos nient’affatto apofantico, ma che è, invece, proprio quel “dire” (la parola che non dice dice) che sostanzialmente è il lasciar apparire, il levarsi di ciò che tenacemente si occulta, si dissimula, si vela. Non è forse “in luce” ciò che appare persino nell’oscurità?

la gentilezza della poesia questa/vede il buio nella luce e luce/nel buio solamente ed è l’ultima carta o cartuccia e spara forte/non ha mezze parole né quarticini.

A questo proposito può tornare utile la lettura delle Conferenze di Brema e Friburgo di Heidegger, specialmente l’ultima delle cinque di Friburgo del 1957. Linguaggio e pensiero hanno il loro fondamento nell’essere, scrive il filosofo tedesco. E ciò che essenzialmente è del linguaggio inteso come “dire” è l’ambito del porgere. Dire e porgere, allora, non è altro che lo spazio della parola “poetica”, il luogo fondante di quel linguaggio che si dispone alla comprensione, a quel risuonare dell’essere che richiede l’annullamento del gesto codificato. Heidegger parla di questo movimento come mala essenza, Insinga, invece, lo iscrive nella mala grazia. ai giuda beatitudini a noi mala grazia. Una lingua tradita, allora? E quale lingua può inverdire quel nulla che non si può dire con le parole? Qual è, dunque, l’albero delle altitudini o degli abissi? Che cos’è il linguaggio se non Madre?

la madre è un pesce sotto le sue/tonnellate di acqua sotto il mare/la voce rullante sotto il mare/non è nemmeno nel mondo e/non è ancora mondo e mondato.

Poesia è la lingua madre del genere umano, scrive Johann George Hamann citato da Heidegger nelle sue riflessioni intorno all’essenza del sagen, del dire favoloso.

E tocchiamo l’Insinga, a questo punto, per sentirne un accoramento e quella forza protrettica, esortativa, che accompagna sempre qualsiasi dire autorevole: per fare parola prima che sia/tu stessa parola prima che/
ti veda la lingua e la lingua/di terra e di mare nostro/e prima di dire più forte:/male in forma di isola.

Ovviamente la dovizia del testo (ora è smisurata ora è niente) offre un’infinità di altre suggestioni e riflessioni. E richiamare Jabès, Derrida, Blanchot, Hölderlin, per ritrovarne altri sensi non fa altro che confermare la statura di una poetessa che preme per una poesia dove, materia e segno così come spirito e natura, tradizione e sperimentazione si offrono a quel “dire” sacrale che si fa voce distinta di pensiero, ovvero di ciò che è divino nel senso aurorale di un sorgere, di un affiorare, di un presentarsi.

se la dea ti offre la gola che fai? è altissimo il debito di tenerezza:/l’indigestione di una divinità in debito/con me eppure innocente e pure nuoce/anche a debita infinita distanza maledetta.

Certo, non bisogna essere mai assertivi, né ricadere in un assoluto per espansione di relativo, tuttavia ogni tanto è necessario chiudere il cerchio pur sapendo che non è chiuso. In fondo, nella sua essenza, il linguaggio non fa altro che preoccuparsi di se stesso. Non potrebbe fare altro. E lo fa grazie ai poeti, cui piace giocare con le parole e divertirsi.

la matrice psicolinguistica/la amatriciana piccante/la matricola inesistente/l’amatrice dimezzata/e il mondo altro che va/a rotoli e rotolano teste/scappiamo dal mondo/in un mondo altro dove/perduta ancora la lingua è/tutto perduto/grazie sempre a dio.

Una fiammante raccolta, quella che ci propone l’Insinga con A sciame, un salto nell’acqua limpida dell’essere, dove si esce, si migra, ci si riunisce per quell’unica salvezza che è imparare a zoppicare. Uno squarcio. Una fiala d’aria. Un giardino planetario. Un’alterità felice. E finalmente poter declamare:

teniamoci leggeri teniamoci/
al tuo capo santo rotoliamoci
/la risposta è nessuna domanda:/colonizzare la lingua devastarla/andare a sopravvivere su un altro/pianeta natale e devastarlo/
e sciamare via e via così.

[Maria Grazia Insinga, A Sciame, Arcipelago itaca Edizioni, pag. 90]

Maria Grazia Insinga (Milazzo, 1970), dopo la laurea in Lettere moderne, il Conservatorio e l’Accademia musicale si dedica all’attività concertistica. Attualmente è docente di Pianoforte presso l’Istituto “Giovanni Paolo II” di Capo d’Orlando. Sue poesie sono state tradotte in romeno, francese, inglese, spagnolo e russo. Tra le sue pubblicazioni: Persica (Anterem 2015); Ophrys (Anterem 2017); Etcetera (Fiorina 2017); La fanciulla tartaruga (Fiorina 2018); Tirrenide (Anterem 2020).

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