Mai più cancel culture nelle università italiane

In Italia, ci sono stati casi di interventi delle autorità accademiche per evidenziare la loro mancata autorizzazione a specifiche iniziative solidali con la popolazione palestinese, ad esempio a Bologna, così come diversi articoli di stampa che hanno associato le prese di posizione per il cessate a fuoco a Gaza a posizioni oggettivamente vicine ad Hamas o, addirittura, a sostegno dell’antisemitismo. La tentazione non si è confrontata con la vera e propria “svolta epistemologica” che ormai vive in questi campi di studio

Tempo di lettura 5 minuti

C’è un rischio per la libertà di insegnamento e ricerca nelle università? C’è in corso una limitazione a questa libertà negli Stati democratici? La risposta a questa domanda è fondamentale per chi lavora all’interno della ricerca universitaria, ma lo è anche per chi studia e, più in generale, per l’organizzazione sociale che utilizza anche i saperi e le competenze che all’interno degli atenei vengono preparati e diffusi.

Le informazioni e i fatti di cronaca a nostra disposizione indicano una tendenza alla restrizione di questa libertà, la quale non può essere misurata in modo più preciso anche perché mancano le conoscenze su quanta autocensura viene praticata da chi svolge attività di ricerca e insegnamento. Il problema non si pone oggi e non si pone solo in Italia. La messa in discussione di questa libertà è una pratica che viene da più lontano, che ha trovato un bersaglio – se non proprio un nemico – soprattutto in alcuni approcci teorici e verso loro specifici rappresentanti.

Il precedente

della Francia

Un caso è quello accaduto in Francia nel 2021, quando, come prontamente analizzato dalla filosofa Yala Nadia Kisukidi[1], una parte della ricerca in ambito umano e sociale è stata messa a rischio, specialmente quella attiva nei campi della critica e analisi antirazzista, postcoloniale e decoloniale: sotto l’etichetta di islamo-gauschisme (che vuole indicare, e stigmatizzare, l’intreccio se non l’alleanza tra estrema sinistra e Islam politico) si sono messe in discussione, da parte dello Stato francese, questi ambiti di studio, in particolare con un’indagine annunciata da parte di Frédérique Vidal, in quel momento ministra dell’istruzione superiore, della ricerca e dell’innovazione[2], che, secondo il giornale Le Monde, la ministra non avrebbe, poi, mai commissionato[3].

L’annuncio di un’inchiesta su questi ambiti di studi fu un chiaro riferimento ad una possibile censura, agendo un atto politico del tutto illegittimo e contrario al rispetto della libertà di ricerca. Non è un caso che a essere messo nel mirino sia stato un insieme di campi di studio e modi di analizzare la realtà sociale e politica che si sono sviluppati e diffusi negli ultimi 40 anni fuori dalle università europee e statunitensi. Campi di studio giunti, ovviamente, in queste università, ma in conflitto con la loro storia scientifica e culturale: campi e approcci che hanno sfidato i saperi consolidati, portando nella ricerca sociale e umana le proposte teoriche dell’intellettualità nera, meticcia, diasporica, non bianca, femminile, queer, che, storicamente, non hanno trovato spazio nelle università europee e statunitensi né nelle loro elaborazioni teoriche canoniche.

Svolta epistemologica

del tutto ignorata

Trattare tutta questa radicale innovazione come un mostro esotico, implicitamente se non apertamente amico del terrorismo (islamico e/o di estrema sinistra), è una tentazione che si è fatta avanti in diverse accademie: ma questa tentazione non si è confrontata con la vera e propria “svolta epistemologica” che questi campi di studio e ricerca hanno ormai determinato. Liquidarla – in modo infamante – come un’apertura degli atenei alle istanze del cosiddetto Islam radicale o fondamentalista vuol dire – nella migliore delle ipotesi – ignorarne la rottura che essa ha già determinato nei saperi, con la diffusione dei processi di decolonizzazione della ricerca e della conoscenza e con l’affermazione dei punti di vista di quelle parti del mondo che la modernità ha visto dominate e subalterne (gli schiavi, i neri, le donne, il lavoro povero, le popolazioni nomadi e migranti). Al tempo stesso, significa anche rafforzare l’islamofobia, l’idea secondo cui l’Islam – e chi a esso fa riferimento – sia sostanzialmente equivalente a terrorismo e violenza omicida.

La questione non è, evidentemente, solo accademica. Essa richiama un conflitto che è più generale e che ha a che vedere con il fatto, spiegato dal filosofo camerunense Achille Mbembe nel libro “Critica della ragione negra”, che “l’Europa non è più il centro di gravità del mondo” [4]. Questa è “l’esperienza fondamentale della nostra epoca”: significa che il primato euro-occidentale su cui si è costruito il capitalismo storico, quello accelerato dalla Conquista dell’America dal 1492, è finito. Accettarlo è difficile, anche per tanta parte del mondo intellettuale europeo ma ancora di più per i suoi poteri economici, politici e militari. I contraccolpi di questa svolta possono essere violentissimi, ma, ormai, questo è un dato storico, del quale l’emergenza di nuovi approcci di ricerca è un’espressione, è una spia, ma anche una esplicita manifestazione, che si può negare solo se si vuole negare – per motivi di potere e tentativo di mantenimento della supremazia politica, culturale ed economica – il cambiamento epocale in corso.

La censura

che avanza

Il significato politico della contesa in atto, che attraversa anche le università, è, dunque, chiaro. Esso si è reso ancora più palese negli ultimi mesi, quando la censura, giunta fino ai licenziamenti, si è proposta in modo anche sfacciato nei riguardi di docenti repressi per le loro posizioni pubbliche verso le azioni militari di Israele contro la popolazione di Gaza e dei territori occupati in Cisgiordania. Un caso tra i più eloquenti è stato il licenziamento dell’antropologo Ghassan Hage da parte del Max Planck Institute[5], in quanto “di recente, ha condiviso una serie di post sui social media esprimendo opinioni incompatibili con i valori fondamentali della Max Planck Society”[6], verso il quale lo studioso ha fatto ricorso dopo una presa di posizione pubblica[7].

In Italia il caso

della Di Cesare

In Italia, ci sono stati casi di interventi delle autorità accademiche per evidenziare la loro mancata autorizzazione a specifiche iniziative solidali con la popolazione palestinese, ad esempio a Bologna[8], così come diversi articoli di stampa che hanno associato le prese di posizione per il cessate a fuoco a Gaza a posizioni oggettivamente vicine ad Hamas[9] o, addirittura, a sostegno dell’antisemitismo[10]. Lungo questa scia si sono mosse anche le ipotesi di azioni disciplinari contro la professoressa Donatella Di Cesare per un tweet dopo la morte di Barbara Balzerani. Al tempo stesso, una serie di prese di posizione contro la cosiddetta cultura woke e la cancel culture si vanno diffondendo anche qui[11], come se davvero esistesse una dittatura dei saperi di quelle che in passato sono state minoranze o popolazioni represse. Se per cancel culture si intende (tra le sue molteplici accezioni) la richiesta che proviene dai movimenti sociali di tante parti del mondo di abbattere le statue dei colonizzatori e smettere di glorificarne le gesta, nascondendone le violenze, allora non siamo di fronte a nessuna cancellazione della storia, ma anzi, al contrario, siamo di fronte a un movimento che richiede una storiografia che riconosca le radici e le conseguenze violente, sistemiche e di lungo periodo del colonialismo e del razzismo. Bisognerebbe ringraziare questi movimenti, anche qui in Europa, per l’opportunità che ci stanno mettendo a disposizione: quella di costruire una storia mondiale comune, che non occulti i lati che ai gruppi umani dominanti non tornano utili.

Dunque, siamo immersi in un cambiamento epocale. È il tempo di riconoscerlo anche nelle università italiane, ed europee in generale, senza paure e censure: sapendo che un mondo comune non si può più costruire come nella lunga storia del colonialismo e degli imperialismi, dominando e inferiorizzando gli altri. È importante discuterne, dentro così come fuori dalle università, anche per contribuire a non perdere, o vedere ridotta o auto-ridotta, la libertà di ricerca e insegnamento.

 

 

 

[1] “Islamo-gauchisme: le pouvoir s’en prend aux espaces de production libre du savoir, désignés comme cibles” par Nadia Yala Kisukidi – QG – Le média libre; Islamo-gauchisme – what does it mean and why is it controversial in France? (thelocal.fr)

[2] Frédérique Vidal lance une enquête sur « l’islamo-gauchisme » à l’université (lemonde.fr)

[3] Enquête sur « l’islamo-gauchisme » à l’université : histoire d’une vraie fausse annonce (lemonde.fr)

[4] Note sul tardo eurocentrismo – il lavoro culturale

[5] Israel critic Ghassan Hage sacked by Max Planck | Times Higher Education (THE) (archive.org)

[6] Statement of the Max Planck Society about Prof. Ghassan Hage | Max-Planck-Gesellschaft (mpg.de)

[7] Hage Ba’a: Statement Regarding my sacking from the Max Planck Institute of Social Anthropology (February 9 2024) (hageba2a.blogspot.com)

[8] Barghouti, Unibo prende le distanze: “Quell’evento non era autorizzato” (ilrestodelcarlino.it)

[9] Il presidente del Memoriale della Shoah di Milano: “Basta derive pro Hamas nelle università” | Il Foglio

[10] Rischio antisemitismo nelle università: il controappello di migliaia di docenti e intellettuali – La Stampa; L’antisemitismo peggiore è quello dei docenti universitari italiani – Panorama.

[11] La trappola woke (civiltadellemacchine.it)

Gennaro Avallone

Nato nel 1973, è professore di sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Dipartimento di studi politici e sociali l'Università degli studi di Salerno. Tra i suoi temi e ambiti di ricerca si segnalano i processi di emigrazione e immigrazione, il razzismo, il lavoro agricolo, l’ecologia politica e la sociologia urbana.

Previous Story

Stritolati dall’industria culturale, evocando Debord

Next Story

La Psichiatria è prigioniera di un paradosso