Vorrei condividere qualche riflessione sul delicato tema dell’associazionismo e sulle odierne difficoltà “interne ed esterne” di tale campo sociale, rispetto all’odierna difficoltà nel reperire autentici e adeguati percorsi di cura. Difficoltà in cui è onnipresente l’angoscia sottostante ai problemi da affrontare, tanto più aggravata da una sostanziale inadeguatezza della “risposta istituzionale”, per tacere della torbida logica dell’accreditamento legato alla presenza di “strutture private” che dovrebbero integrare, il più delle volte sostituendosi, il “pubblico”. Non si tratta di una mera faccenda nominalistica, tant’è che spesso lo stesso “pubblico” funziona con una logica privata. Non c’è “valore aggiunto”, da una parte come dall’altra.
In tal senso mi è capitato spesso di leggere e di ascoltare “resoconti”, a dir poco drammatici, da parte di esponenti di associazioni ma sopratutto da parte di familiari con pazienti psichiatrici.
I “riassunti” delle loro angosciose esperienze costituiscono una tragica cartina di tornasole che fissa lo stato di involuzione del sistema assistenziale, ma soprattutto fotografa gli esiti cui conduce “il paradigma biomedico applicato ai disturbi mentali”. La devastante pervasività di tale logica operativa non solo è sotto gli occhi di tutti ( ma proprio di TUTTI…) quanto piuttosto risulti “rimossa” dalla coscienza degli “effettori” quanto di quella dei supposti “beneficianti”.
L’anomalia
psichiatrica
Il richiamo alla connotazione “biomedica” di tale paradigma, serve a illustrare la persistente anomalia che attraversa l’ambito psichiatrico, il cui permanente misconoscimento non può che perpetuare l’odierno stato di cose. Se dolorose sono l’impotenza e la frustrazione come derivati quotidiani di chi ospita in famiglia “casi psichiatrici”, l’acquiescenza, l’ipocrisia e l’indifferenza dei “portatori di competenze” risulta doppiamente grave, non solo per una peculiare “miopia nella prassi “, ma perché tutta rozzamente risolta in logiche di potere. Tutto ciò da parte innanzitutto di quella “macrocategoria di operatori psy” che, usciti indenni dagli anni delle grandi controversie che hanno agitato la “quasi-scienza psichiatrica”, rappresentando uno dei momenti più ricchi di questa disciplina, prima del “ritorno di un pensiero sommario” che ha tratto pretesto dalla scoperta dei chemioterapici per tentare di dispensare gli psichiatri dal dovere di pensare e di riflettere.
In tal senso, una possibile e preliminare risposta all’interrogativo che ponevo in un mio precedente contributo di alcune settimane fa…”come mai, nel 2024, il pregiudizio, la miseria dei servizi, l’ignoranza da pensiero unico, caratterizzano la cultura delle istituzioni e dei servizi…”, cui aggiungevo l’altra e forse più decisiva quota di miseria costituita dalle “risposte postmoderniste” che si può cogliere e “subire” dalla “frequentazione” degli stessi, la cui logica operativa si riduce a una forma di “ambulatorialismo” che, paradossalmente, sarebbe più pertinente applicare a “casi di interesse e natura internistici”, piuttosto che a casi di “natura psichiatrica”.
Ciò detto, e fenomenicamente riscontrabile da parte di TUTTI, ritrovarsi con “operatori psy” che approcciano le stratificazioni problematiche di un “disturbo mentale” con la stessa postura e sufficienza di un cardiologo o di un gastroenterologo (con tutto il rispetto per il loro operare che, nel loro ambito, è pertinente e scientificamente fondato), che affronta casi di specifica pertinenza “internistica”, indica proprio lo stato di profonda introiezione di “quel dispositivo biomedico” il cui unico “valore” risiede nel costituire la struttura concettuale di riferimento che attraversa, come un’anomalia”, la psichiatria da almeno due secoli (fatti salvi il “momento basagliano” e gli apporti psicodinamico e fenomenologico che hanno fatto da spartiacque, benché non abbiano saputo mantenere sufficientemente aperta e radicata la “differenza e il guadagno, conoscitivo e pratico” così conseguiti). Tale paradigma, in ambito psichiatrico, trova una prima scansione nel “dogma griesingeriano”, per il quale “le malattie mentali sono malattie del cervello”, suggellato dalla coerente positivistica integrazione kraepeliniana, secondo cui “della LINGUA dei pazienti non ci importa granché ” .
Con Griesinger siamo a metà dell’800, con Kraepelin all’inizio del ‘900. Questa equazione (le malattie mentali come malattie del cervello), e quel rigetto della LINGUA dei pazienti costituiscono la trama operativa di ciò che cade nell’esperienza di TUTTI i familiari di pazienti psichiatrici.
D’altra parte, tale situazione reale, è “scientificamente surrogata” da una retorica, molto diffusa anche negli ambienti dell’associazionismo, non priva di un suo peculiare appeal: la retorica della salute mentale , coi suoi altrettanto pochi e poveri meriti a fronte della sostanziale pochezza operativa, il più delle volte autoreferenziale, vuoi in forme apologetiche, vuoi nella costituzione di quella pletora associativa cui non “corrisponde” quanto “promesso”, spesso in modo roboante, dal teoreticismo “bio-psico-sociale”. Il quale ” bio-psico-sociale”, suona ormai come un mantra cui non rinuncia più nessuno, se non come “medium” per accaparrarsi qualche agognato accreditamento presso l’Asl di competenza.
Deformazione
delle “reti”
La “rete”, il “fare rete”, “l’associazionismo”, a dispetto delle “buone intenzioni”, si sono risolti in una sorta di “agglomerato” dove spesso si respira un’aria da dopolavoro dove stazionano, irrisolti e rimasticati perché fuori portata, i problemi di fondo, come quelli di base; limitandosi a una “gestione del quotidiano” che, in tal modo, dà evidenza empirica al sostanziale fallimento, fatto di impotenza se non di indifferenza per “ciò che fa, di come vive e di ciò che pensa” un paziente. Di tutto ciò, a partire dalle posizioni apicali dei Dsm, con la loro insopportabile “cifra manageriale” con cui allargano braccia e diffondono eloquenza specialistica, per arrivare ai vertici istituzionali con l’apparente e variegata dislocazione di “offerta di servizi” sul famigerato territorio, non interessa quasi più a nessuno. Solo a sopravvivere e “manageriare”.
E benché sia condivisibile, in via di principio, l’operare e le finalità dei vari associazionismi , tuttavia la “pratica” e le “pratiche” di costoro, continuano a trascinarsi, nel corso delle loro giornate operative, due limiti che meritano di essere rilevati e, possibilmente, portati a consapevolezza: se da un lato l’associazionismo si è prodotto come effetto di una più ampia e diffusa sensibilizzazione ai problemi, costituendo in tal modo uno dei portati più rilevanti dell’innovazione basagliana, dall’altro si è risolto nella logica dei “piccoli narcisismi” dei quali si può dire che “funzionano” un po’ come la burocrazia italiana, allorché la mano sinistra non sa cosa fa la mano destra.
Cosi come è caduta nel vuoto dell’irrilevanza, alcuni anni fa, l’istanza nata all’interno dello stesso OMS, che si poneva l’obiettivo di una radicale messa in discussione del “paradigma biomedico in ambito psichiatrico”.
Tale obiettivo, che potrebbe sembrare irrealistico, unilaterale e polemico solo ai poveri di spirito e ai zelanti propalatori di un “credo” spacciato per scientifico, ha trovato un significativo riscontro critico nelle riflessioni di Mario Maj, “past president” della W.P.A.( World Psychiatric Association), in particolare laddove si sofferma su ciò che ha definito “fallimento del paradigma Kraepeliniano”, cioè a dire proprio ciò su cui, del tutto surrettiziamente, poggia tuttora “l’identità teorico-pratica” della “quasi-scienza psichiatrica”.
Cioè a dire che non è più possibile legare una “certa costellazione sindromica” a una ” configurazione anatomopatologica”.
Il che ha delle implicazioni tali che i “praticanti” tale paradigma non osano neanche immaginare e, laddove sensibilizzati, rifiutano di assumere le relative implicazioni; oltre al fatto che, in tal modo, questa “quasi-scienza” non si può ritenere, sic et simpliciter, una “specialità medica” senza le colossali e complesse peculiarità e problematizzazioni, che affondano nel delicatissimo e controverso terreno relativo alla natura del punto archimedeo della psichiatria che, come è ben noto dalla “storia delle sue origini “, è di natura extra medica, ovvero antropologico e filosofico.
Mario Maj
ignorato
Tutto ciò, oggi, è ancora motivo di scandalo all’interno dell’arrocata cittadella accademica.
Su tale punto nodale, sia dai vertici Dsm che dalla sfavillante congressistica odierna, non è mai giunta alcuna seria riflessione o riscontro alle considerazioni dello stesso Mario Maj. Solo il protrarsi di un silenzio… Ma, d’altra parte, anche in seno alla platea associazionista non si sono né registrati riscontri né pare esserci consapevolezza di tale dirimente aspetto, e ciò forse per una sorta di riflesso protettivo indotto dall’abbaglio della “versione bio-psico-sociale” che conterrebbe sufficienti elementi da essere ritenuto ancora “sufficientemente emancipatorio”, tali da “arricchire, diversificare e finanche superare” il modello biomedico” .
Lo stallo sa
di capolinea
Così purtroppo non è, e lo stallo odierno ha condotto la disciplina psichiatrica ormai al suo capolinea, in una condizione che ricorda la posizione del prigioniero nel racconto di Edgar Allan Poe, ” Il pozzo e il pendolo “: con la differenza che rispetto al prigioniero del racconto, che poté contare su un intervento “esterno”, nell’odierna situazione questa soluzione non è verosimile, dipendendo solo da noi e dalla consapevolezza critica che sapremo mettere in gioco su questo terreno.
A dispetto degli odierni “officianti” , più simili ai pifferai di Hamelin che autentici “scienziati” , che nelle loro figure cardinalizie dispensano un’ortodossia “culturalmente di importazione e perciò stesso “determinata”, che ha fatto del nostro paese, anche in questo campo dove si è prodotta l’unica autentica riforma di portata mondiale, una “colonia” che rimastica “progressismi” che sgorgano dagli alambicchi delle multinazionali farmaceutiche.
Si tratta insomma di “uscire” da un certo sistema di pensiero che, lasciato tale e quale, mantiene inalterati i problemi odierni, anzi, aggravandoli con la deriva privatistica cui si avvia.
Resta il fatto che “limitarsi al solo lamento istituzionale” non è più sufficiente: occorre ri-aprire uno spazio di reale riflessione politico-culturale dove confrontarsi su ciò che accade quotidianamente.
Sapendo inoltre che ci sono due futuri: il futuro del desiderio e il futuro del destino.
Tanto più, sulla scorta di Spinoza, per il quale, a maggior ragione oggi, “l’ignoranza non è un argomento”.