“Un racconto straordinario: la storia di una lunga e penosa malattia contro la quale Giovanna Chicca Ferrara ha lottato con tutte le sue forze fino alla fine. La sfida di tutte le regole, nel cercare di proteggere alla meglio un corpo che sentiva stretto tra i due fuochi che l’assediavano, quello esterno del Covid e quello interno della sua fibrosi polmonare idiopatica che inesorabilmente ogni giorno le rubava un po’ di respiro. Un corpo a cui è sempre riuscita però ad assicurare quei ripari ai quali tanto teneva e a cui non ha mai voluto rinunciare, fino alla morte: l’analisi, la pratica buddista e i suoi amici. Uno sguardo agghiacciante sulle inefficienze del Sistema Sanitario e i paradossi della politica” (da un post di Egidio Errico) .
La prima presentazione del libro “L’innocenza dei dinosauri” (Fuorilinea) si svolgerà il 17 gennaio, alle 18, presso la libreria Feltrinelli di Salerno. Interverranno Adalgiso Amendola, Egidio T. Errico e Andrea Manzi. Coordinerà Donato Ferdori. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo i primi due capitoli del libro di Giovanna Ferrara, firma autorevole del Manifesto.
L’evento
Nella società stava accadendo qualcosa di magmatico. Non la solita roba di malcontento, il solito movimento che finiva nei cuori sotto forma di rancore, invidia, gelosia o un misto di tutte queste cose. Questa volta sotto le strade, sotto gli stessi polpastrelli delle persone, sotto la terra dei parchi, sotto i binari della metropolitana, negli interstizi dei porti, tra le righe del parcheggio, sul dorso dei platani, negli zaini dei bambini… qualcosa stava scorrendo.
Aveva un’intensità sotterranea, di quelle percepite solo dai cani che alzano il muso mentre sono indaffarati in qualcosa o come in Tunisia fanno gli uomini al richiamo del muezzin o in Alaska quando gli uccelli annunciano tormenta.
A tutti, o almeno a moltissimi, l’evento si annunciava con rumori sinistri, anche tanto sinistri, ma che nessuno era ancora allenato a distinguere da quelli prodotti dalle grane dell’epoca tetra, anno 2020. Alcuni, senza sapere gli uni degli altri, lasciarono le case. All’unisono, in diverse parti della città, cominciò un lavorio sordo di smantellamento delle vite. Le persone non si parlavano abbastanza da riuscire a comprendere che non si trattava del destino isolato di ognuno ma di un esodo collettivo. Le ragioni erano diverse, è vero.
Edoardo aveva lasciato Roma perché Samuela non poteva più lavorare tutta la giornata. Con il secondo figlio e senza nonni, non riuscivano comunque a pagare la babysitter. Non aveva senso per Daniele rimanere nella casa di via Lanza. Lui che viveva di quadri venduti nelle gallerie, dopo il lockdown aveva chiesto che gli venisse dimezzato il fitto. Ma gli slanci dei padroni di casa sono sogni impossibili e lo stato, casomai se ne definisse la necessità insostituibile, dovrebbe avere come compito principale quello di imporre solidarietà. Di fare della solidarietà un’atmosfera.
C’era l’esercito dei fuori sede che non avrebbe più preso le stanze, l’università la seguivano dalla camera dell’infanzia. Si vedeva ancora qualche poster di Totti sbiadito nelle finestre di zoom aperte sulle loro vite inermi. Come avrebbero fatto a innamorarsi questi studenti? L’evento si annunciava con il silenzio delle feste che non ci sarebbero state, dell’amore che non si sarebbe consumato nel monolocale condiviso, della gioia che non si sarebbe riversata nelle strade.
C’era poi tutto il comparto lavoratori dello spettacolo. I teatri chiusi, i cinema con i distanziamenti, gli abbonati scesi del 90 e passa per cento perché sono tutti anziani gli abbonati. E allora, programmi televisivi rimasti al binario tronco del mancato finanziamento. Produzioni sciolte come le classi dopo la maturità. Attori che non erano più niente, registi senza storie, montatori senza più immagini. Il rumore di questo evento, per loro, era la cartella di sfratto, il segnale debole del modem depotenziato per la diminuzione della corrente elettrica, ovvero l’avvertimento-performance del prossimo distacco.
Si muoveva così l’evento, sedeva nei bar, osservava tutto. A qualcuno, ripensandoci, è sembrato che ridesse.
Lo stato di emergenza slittava di mese in mese che a chiamarlo emergenza un po’ si mentiva ma un po’ no. Era emergenziale, senza dubbio, l’organizzazione del mondo nuovo. Dal vecchio eravamo stati sfrattati rocambolescamente. L’operazione in Italia era costata più di 40 mila morti; negli Stati Uniti, più di 210 mila. E l’evento, allora, aveva pochi mesi di vita.
Emergenza sembrava una parola con un significato nuovo quando la sospensione delle vite, della sanità, del futuro si protraeva da quasi un anno. Ed eravamo nella stessa e identica condizione del principio.
Cosa avessero fatto in quei mesi di moltissimi morti, in quei mesi di osceno, di cronache di uno sbaraglio sanitario non si capiva bene. L’informazione non riusciva a formulare una domanda così banale. Forse avevamo tutti paura che la risposta fosse “niente”.
La responsabilità fa impressione, la delega ha sempre qualcosa che solleva. E spesso, durante l’evento, si preferiva dichiarare quella tragedia inevitabile pur di non andare a cercarne le cause profonde nei voti che avevamo dato, nei sogni a cui avevamo partecipato e che non erano nostri: il pareggio di bilancio, i tagli strutturali, la riforma del lavoro. Se ci si sforzava di guardarlo come si fa con i rigori sospetti, con una specie di Var, si vedeva chiaramente che a scatenare l’evento erano state molte cause concentriche: tessere che, cadendo l’una sull’altra, ci precipitavano in un disorientamento drammatico.
L’economia fagocitava intere filiere, colonizzava il terreno di interi paesi, impediva la regolamentazione del lavoro, precarizzava i diritti, mangiava investimenti, chiedeva alle persone di rinunciare alle cose più importanti: il diritto alla salute, all’istruzione, alla dignità di una vita che il ricatto della precarietà zittiva. L’economia, in quel momento della storia, era uguale a un usuraio, indifferente alla disperazione necessaria per pagare gli interessi, soldi che fanno soldi, in una moltiplicazione oscena di sconforto sociale. Sono paradossi che abbiamo imparato ad accettare senza stupore. La distruzione dell’ambiente, praticamente un suicidio collettivo, giudicata sopportabile se, ad essa, corrisponde l’aumento dei profitti da carbone, l’emissione degli scarichi senza obbligo di riciclo, la cannibalizzazione degli ecosistemi da parte delle città che sdraiano le proprie marginalità in periferie sempre più feroci.
Non era stata la sezione under 12 di Legambiente ad avvertire che l’evento era inevitabile. Erano stati gli scienziati che studiano la diffusione di agenti infestanti, i biologi che osservano le ripercussioni dei cambiamenti che imprimiamo all’ambiente. Le agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di sanità e ambiente ripetevano, da almeno quindici anni, che l’evento ci sarebbe stato.
C’è qualcosa di demoniaco nel potere quando getta silenzio sull’evidenza accecante delle proprie azioni e delle nefaste conseguenze che ne derivano. Quando tace sulla filiera delle cause che ha prodotto e, al contempo, si pone come il soggetto chiamato a risolvere l’evento.
In America, mentre molti non si potevano curare perché non avevano l’assicurazione sanitaria o perché fingevano di non avere sintomi per non perdere il posto di lavoro, i vecchi leader di destra si inventavano un’altra strategia: negare la pericolosità della malattia. Non mancavano mai di dimostrare una perfetta coerenza, come quando, avendo contratto il Covid, il presidente negazionista è finito ricoverato nei reparti di lusso degli ospedali militari a farsi visitare dai migliori pneumologi che per guarirlo ricorrevano alle terapie più costose, quelle cui nessuno aveva accesso. Niente male per un negazionista.
Nei particolari minuti
Ci ho messo cinquantadue minuti a spiegare alla guardia giurata del Pronto Soccorso dell’Ospedale San Camillo di Roma che ero un codice rosso anche se camminavo, non perdevo sangue, parlavo ed ero cosciente. Attorno al ventesimo minuto, cominciai a pensare a quella scena come a un’allucinazione surrealista, un involontario grottesco avanzo di situazionismo. Io, veterana a soli 40 anni di emergenze pneumologiche di ogni tipo, con un dorato curriculum di invalidità totale, quotidiane battaglie con soffocamenti di ogni grado sismico, Grand Tour tra i primari come fossero safari organizzati da esclusivi club per occidentali annoiati, una malattia rara fibrotica e senza cura diagnosticata ad appena 38 anni, dovevo spiegare al signore della ditta “Lince romana” perché avevo deciso di passare la domenica pomeriggio del 13 novembre 2022 con lui, nello squallido androne di un reparto d’emergenza.
E’ l’esperienza che mi ha fatto esplorare le menzogne di questo Stato, in cui la costituzione materiale è un satellite lontano da quello in cui crediamo di costruire le nostre istituzioni. William Blake usò un’espressione in una sua poesia, il bene che si fa nei “particolari minuti” contro un bene generale che è una menzogna sbandierata: General Good is the plea of the scoundrel, la scusa della canaglia. E Pietro Barbetta scrive che la democrazia si vede nei dettagli, non nei proclami. E allora, dall’angolo visuale di questo viaggio nei reparti tra emergenze e controlli, tra piani terapeutici, ottuse burocrazie, tecnicismi, diluizione dell’umanità nell’esasperazione, il viso stesso della nostra società si mostra estraneo al tratteggio di lineamenti in cui i diritti essenziali trovano inveramento.
In questa finta democrazia, ho dovuto chiamare un radiografo privato a farmi una rx per diagnosticare un collasso dei polmoni. Con una malattia polmonare, conoscendo i sintomi di uno pneumotorace, non posso permettermi di aspettare i tempi di attesa dei Pronto Soccorso di Roma. Mi presento quindi in ospedale con una diagnosi già fatta e, nonostante io sia un soggetto a rischio, nonostante si sappia che un polmone non sta funzionando e l’altro è seriamente compromesso (ho un decimo di capacità respiratoria ora), aspetto quattro ore prima che mi venga messo un drenaggio. In quell’attesa capisco materialmente, “nei minuti particolari”, che si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, per le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono.
Proprio da quel novembre del ‘22 è cominciato l’incrementarsi delle criticità di questa malattia anomala, che ha un andamento irregolare, che mi richiede una disciplina e una pazienza da costruire ogni giorno come i castelli di carta, assistendone al crollo per un movimento d’aria, a volte per un pensiero meno leggero di quello che ha armato le mie mani.
La mia malattia viene da lontano. Da cause che possono essere solo ipotesi. E non è solo nebulosa riguardo al passato, è anche imprevedibile e capricciosa riguardo alle progressioni o alle stabilità. E’ una malattia-domanda, una malattia-ricerca, una malattia che convoca la scienza, la coscienza, le istituzioni, i medici, i riabilitatori, gli affetti su uno sgabello al centro di una stanza e indaga essenza, segreto e proporzioni della vita. Convoca anzitutto me, l’uso che ho fatto di me, le offese arrecate alla salute, che è un mondo cosi più complesso e grande e sfaccettato e potente di quello che ci spacciano. Dicono assenza di patologie ma in realtà vogliono dire efficienza. La salute è quello che nelle pubblicità dei multivitaminici non è mai stanco, quello che nelle promozioni degli antidolorifici si riprende da una contusione in dodici minuti dall’assunzione del medicinale al gusto mango. Tutti risorti da una notte d’influenza passata come un soffio di vento, che non ha lasciato macerie: si può andare a lavorare il mattino dopo anche se la sera prima ci si sentiva morire con 39 di febbre.
Quella domenica al San Camillo non passa. E’ diventata un incastonamento eterno nel tempo e nello spazio. Uno stupore inesaurito mi porta a ripensarci sempre, credo ogni giorno. Poter morire così, per l’attesa dell’infermiera che ti fa l’anagrafica, sarebbe potuto succedere. Come è successo tante volte in questo paese ottuso e straziato da una disumanità che è diventata metodo esistenziale.
Nella sala del Pronto Soccorso, una volta che sono riuscita ad accedervi, eravamo in una novantina. Tantissimi gli anziani che stavano lì anche da tre giorni. “Lì” si deve immaginare come uno stanzone coi neon, le barelle una vicina all’altra in un mosaico di dolori e sintomi differenti. Qualcuno vomitava vicino al ragazzo che aveva fatto l’incidente in motorino. Molti dei vecchi entravano ed uscivano da stati di incoscienza, da soli, in una solitudine totale dove la loro anima si trovava al centro di un niente senza orizzonte, di una disorganizzazione collettiva che aveva gli occhi lucidi e persi di chi vede qualcosa oltre il margine della vita e prova la malinconia di quel modo sconcio in cui nasce la possibilità di andarsene.
Io respiravo sempre peggio, cominciavo a sentire quel freddo particolare che inonda il corpo quando il corpo comincia a non farcela più a tirare avanti il complesso gioco degli organi e della loro continua risonanza. Sono momenti in cui la disperazione ti invade, perché sai che se non hai più la forza di chiedere di essere portata in sala operatoria, se non hai la forza di spiegare che le cose si stanno facendo critiche, sai che nessuno se ne accorgerà. Morire per l’invisibilità che assegnano a 90 persone che stanno male o malissimo.
Da qualche profondità sottomarina, da quel mistico che è la decisione assoluta di voler continuare ad esistere, mi nacque un pianto disperato. Tutto il respiro che avevo era pianto, pianto che spezzava quell’oceanica indifferenza. Pianto per me, per tutti, per la signora vicina col femore rotto che vedeva dei ragni sul soffitto, pena per quelle infermiere stravolte da una cattiveria confezionata come risposta ai turni massacranti, al fetido della manutenzione. E poi pianse la signora dei ragni e poi pianse quella accanto a lei, e pianse con le mani sul capo il vecchio che vedeva oltre e sembrava un quadro di van Gogh e poi pianse il ragazzo, e poi piansero i muri, gli intonaci, le porte, le cartelle da compilare. Pianse il mondo. E dopo un attimo qualcosa svegliò tutti. Io andai in sala operatoria e in dieci minuti avevo il drenaggio. Respiravo di nuovo. E al vecchio permisero di vedere la figlia, e misero le flebo a chi vomitava e al ragazzo del motorino cominciarono a togliere i tessuti che intanto si erano attaccati al sangue raggrumato. Piangevamo di dolore ma era un movimento verso qualcosa, verso un tentativo di spostarsi dal baratro nel quale ci avevano scaraventati.
Arrivai nel reparto di chirurgia toracica che erano le tre di notte. Non mangiavo dalla mattina. Né avevo mai bevuto. Chiesi all’infermiere una fetta biscottata e dell’acqua. Mi disse che non c’era né l’una né l’altra. Ero stesa sul letto, a novembre ancora non avevano messo le coperte per cui chiesi di tenere sempre il piumino con il quale ero arrivata. In sala operatoria dissi che quel freddo per me era intollerabile. Significava correre il rischio di prendere una polmonite mentre avevo uno pneumotorace. Un infermiere mi rispose che Fabrizio Frizzi aveva regalato all’ospedale un aggeggio che già conoscevo: serve a tenere caldo chi è sotto operazione, è un phon sparato in una specie di nuvola che ti avvolge mentre ti aprono lo sterno. Ringraziai molto Fabrizio Frizzi e mi pentii tanto dello snobismo enorme con cui avevo sempre guardato i suoi programmi.
Mi ricordai che Maria Lucia, una mia amica con la quale condividevo diverse passioni e la fede buddista, abitava a due passi dall’Ospedale. Le scrissi di notte, perché la sete era terribile. Alle sei e mezza lasciarono passare quelle bottiglie di acqua. Chiesi all’infermiere, un tipo magrissimo con un’ironia tagliente come la sua spigolosità, cosa ci avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori, con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio bar era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione, a prepotenza. Ad un sopruso tanto ottuso quanto inutile.
Lo stesso infermiere rimandò per tutta la notte di vestire la donna che intanto era arrivata in camera. La lasciò nuda e mezza incosciente. Chiamai più volte col campanello per chiedere almeno di coprirla, rispondeva ora veniamo. Veniamo chi? Quanti servivano per mettere un paio di lenzuola sul corpo di una donna in novembre? Quale cosa non poteva essere procrastinata prima di fare quell’azione che necessitava di due minuti? Eppure lo vedevo ciondolare nel corridoio. La donna ebbe la tosse tutta la notte. La sua tosse mi entrava nei sogni che facevo, strafatta da tutto quello che era successo, alterata dagli antidolorifici. Mi arrivava questa tosse e non trovavo la forza di aprire gli occhi e chiamare ancora col campanello.
Quando passarono i medici al mattino, si scoprì che quella notte la donna aveva avuto un edema polmonare. Che non aveva preso i farmaci ipertensivi nei tre giorni di attesa al pronto soccorso. Non so cosa abbiano scritto sulla cartella clinica di quella paziente. Ma non credo che abbiano riportato la nudità di nove ore, la sospensione della terapia per tre giorni, e la fretta con cui lasciarono la stanza e la donna mentre domandava qualcosa ai medici ormai sordi, guardando un sole azzoppato dallo sporco dei vetri, almeno per conquistarsi il diritto di finire la frase.
Ad ora di pranzo arrivavano questi uomini o queste donne con un cappello rosso e una divisa bianca. Li immagino assunti da qualche cooperativa, assoldata dalla direzione sanitaria all’esito di qualche bando che di sicuro non ha tenuto in considerazione la qualità del cibo nei criteri di assegnazione dell’incarico. Non siamo ai soliti motti di spirito sulla pastina dell’ospedale o sullo scondimento punitivo delle fette di pollo. Qui le cose sono immangiabili. Arrivano più o meno 60 vassoi nel reparto. Io e la signora che, dopo due giorni di abbandono, ha finalmente una camicia da notte, siamo alla fine del giro. Vediamo questi vassoi arrivare e andarsene nella stessa forma. Pochissime vaschette sono aperte in qualche punto, spesso in corrispondenza della mela cotta. Quelli che portano il vassoio sono automi inanimati. Lasciano le vaschette sui tavolini di fronte ai letti. Non ci guardano nemmeno. E così due allettate passano mezz’ora a guardare i portavivande di fronte, irraggiungibili. Quando li riprendono, non chiedono come mai non sono nemmeno stati spostati. Dalla nostra posizione sembra un film muto sull’alienazione. Nemmeno noi abbiamo molto da dire, perché per dire si dovrebbe cominciare dalle fondamenta della condizione umana. Andiamo avanti coi cracker che entrano di straforo grazie ai parenti più ostinati. Non ci fanno i tamponi ma il Covid serve ancora a confinare l’esterno fuori dal reparto, con la conseguenza che nessun amico, nessun famigliare, può controllare lo stato di cura con cui stanno gestendo un ricovero. Tanto meno noi ricoverati, che sprechiamo tutte le energie per farci portare una padella in tempi ragionevoli o farci dare qualche flebo di antidolorifico.
Lo pneumotorace che ebbi circa un anno prima avvenne in un contesto completamente diverso, in un ospedale piccolo, di provincia e pieno di umanità. Là, il drenaggio non finiva in una specie di abaco che misura la fuoriuscita di aria. Finiva in una sorta di bottiglia di plastica, di quelle per mettere il vino da asporto in campagna. Io ero un essere polipo, con quel tentacolo contadino. Me lo trascinavo dietro cercando di non farlo cadere. Mi vedevo imbarcarmi per una vendemmia ogni volta che partivo alla volta del bagno per lavarmi i denti.
Al San Camillo, il giro dei medici è veloce e superficiale. Molto, nelle relazioni coi pazienti, viene gestito dagli specializzandi che fanno tirocinio. Non si tratta del maggiore o minore grado di preparazione. Qualcosa di più sottile e profondo rende questi ragazzi completamente inidonei al ruolo che gli assegnano. A ventiquattro anni il mondo è ancora un’entità separata, con la quale non hai imparato la danza dell’immedesimazione. Non conosci l’empatia perché non conosci te stesso. Non conosci la devianza dalla norma perché sei completamente immerso nell’indottrinamento gerarchico degli strutturati. Non sai discostarti da un modello di comportamento nemmeno se lo ritieni ingiusto o inadeguato perché non hai la forza identitaria per dire “no”. E così, se ti rivolgi a loro, ti ritrai per l’ottusità impenetrabile della loro posizione.
La signora chiede a questi giovani medici cose semplici, sente mal di testa e vuole che le misurino la pressione. Il giro è finito, mi dispiace. Ma porca miseria, che ci vuole a prendere un apparecchio per la pressione? Mi sento disperata. Per la prima volta dalla diagnosi. Mi stanno gettando in una inerzia che si rinnova e si irrobustisce giorno dopo giorno. Mercoledì, i miei valori sono 160 su 90 di pressione. Io non posso avere quei valori, mi conosco, sono sbagliati: giro con le liquirizie perché veleggio su numeri da bradicardico, svengo in rocamboleschi abbassamenti di vista, di udito, di percezione per poi riprendermi come dopo un viaggio lisergico. Dico alla specializzanda, senta non può essere giusto questo valore! Se non è giusto questo, poi, non è giusto nemmeno quello dell’ossigeno che è quello che mi interessa. La macchina supertecnologica che misura le due cose assieme fa schifo e si vede da lontano. Non ha autonomia di batteria, ogni volta la devono attaccare a una presa che ogni volta si scopre non funzionante. E’ una macchina stanca e usurata. A volte non si accende. A volte si spegne durante le misurazioni. Comincia una trattativa estenuante. Dura due ore, alla fine delle quali ho sprecato energie che avrei potuto impiegare nel dormire. Vengono con gli strumenti tradizionali, lo sfigmomanometro e un saturimetro da dito. Con gli strumenti normali ritorno da avere i miei valori usuali, 110/60 e 96 di saturazione, segno che lo pneumotorace sta rientrando. La specializzanda fa per andarsene e davvero io non so dire quanto mi senta impotente e ferita e allibita. Le dico che con quell’apparecchio rotto ha misurato i valori di una trentina di persone. Che se sono risultati sbagliati per me, saranno sbagliati anche per gli altri. Che deve ricominciare il giro con gli strumenti basici che hanno usato con me perché i valori che hanno registrato sono alla base delle terapie farmacologiche che hanno somministrato.
Mi guarda come fossi una pazza. La guardo come fosse una stronza. Sta stronza non vuole ricominciare il giro. A quel punto le dico che sono pronta a chiamare i giornali che ben conosco, per dire che trenta persone stanno prendendo farmaci non adatti, potenzialmente pericolosi. La notizia l’allarma, perché solo la codardia fa da motore all’ottusità. Solo la paura. Saltella veloce come uno stambecco stronzo dal primario che le fa ricominciare il giro.
Ma di quei giorni l’esperienza che più mi ha sconvolta è stata quella che ho tessuto dentro di me. Un mutamento piccolo, all’inizio, nella direzione dei pensieri. Poi sempre più consistente. Una cosa scomoda, che cercavo di silenziare, perché metteva in subbuglio tutta la tavola periodica dei miei valori. Io che studio la resistenza all’antifascismo, che mi scandalizzo per la mancanza di giustizia sociale; io che milito scrivendo che solo un cambiamento nel cuore delle persone, solo una pulizia nel cuore delle persone, può creare una nuova società, comincio a registrare un’inquietudine tutta nuova. La violenza sistematica che subiamo sotto forma di indifferenza, di approssimazione, di sparizione (i medici strutturati sono scortesi e fulminei), la violenza della nudità della signora, la mia sete e la mia fame della prima notte, il pianto che mi ha salvato, le coperte che non arrivano e noi che dormiamo nei nostri giubbini, gli affetti assiepati come elemosinanti dietro le porte chiuse per ragioni di Covid (in reparto un uomo ne è affetto e non ci fanno i tamponi, anche se li chiediamo perché siamo lì per problemi polmonari e sapere se abbiamo preso anche quell’infezione dovrebbe essere importantissimo per chi ci cura), la brutalità di quel cibo portato e riportato, le pulizie fatte in sette secondi con le pezze sporche, quella vertigine di desolazione senza rimedio.
È un contesto che non voglio rimuovere, mi dico. È qualcosa che voglio ricordare per sempre perché è l’unico modo per cercare di cambiare, di non accettare, di dire. Però questo si porta dietro una dose massiccia di dolore e di collera. Comincio a vedere gli operatori sanitari nel loro essere aguzzini di gente che sta male, di anziani cui non fanno niente perché a proteggere la loro inerzia c’è l’incoscienza persa di questi ottantenni abbandonati. Ogni volta che qualcuno passa nel corridoio, penso cose come appena starò bene ti verrò a cercare. Scopro in questi ragionamenti minuziosi di vendetta qualche motivo di sollievo. Io, che ho sempre pensato che non sarei stata mai capace di uccidere un nazista, come aveva fatto Pertini o i tanti partigiani, sento che l’oppressione genera, come un veleno, lo scarto della violenza. Sta forse in questa esperienza di emozioni la parte che mi rende più triste, ancora oggi, rispetto a quei giorni di novembre del ‘22. Quel senso di sconfitta che viene dal pensare che non c’è una strada umana per uscire da un simile inferno.
Quando sono tornata a casa, dimessa con un po’ di anticipo perché il conflitto tra me e quel reparto si era fatto insostenibile, sono entrata in una spirale banalmente chiamata da stress post traumatico. Sono stata a letto più del dovuto. Mi alzavo con eccessiva circospezione. Vivevo di paura. L’analista mi diceva di cominciare con piccole cose. Andare all’edicola sotto casa. Per ben due volte tornai indietro, pensando che una macchina avrebbe potuto mettermi sotto. Se non fossi morta, sarei dovuta andare in un Pronto Soccorso a Roma. Fantasticavo sul comprarmi una medaglietta da portare al collo con su scritto in caso di emergenza portatemi al cinema.
Cominciai a cercare di creare dei protocolli miei: andavo da qualche chirurgo toracico di una qualche clinica a pagamento, che però mi diceva che in caso di pneumotorace loro non avevano un Pronto Soccorso. Cominciai a fare visite intramoenia con i primari degli ospedali pubblici, ma tutti mi lasciavano più disperata che rinfrancata. Erano sciatti, senza umanità, erano loro stessi vittime di un sistema sanitario al collasso. Intanto rintracciavo le dichiarazioni dell’assessore D’Amato, lanciato verso le primarie del Pd per il grande successo nella gestione del Covid (per aver fatto una App?). In una dichiarazione alla stampa, datata circa una ventina di giorni prima del mio ricovero al San Camillo, diceva di quell’ospedale: risolto il problema del Pronto Soccorso. Leggevo incredula.
Saltai tutti gli appuntamenti di controllo che mi avevano dato alle dimissioni. Andai giù, a Cava de’ Tirreni, dove un presidio piccolo garantisce ancora un po’ di delicatezza nel trattare gli ammalati. Mi presentai di sera spiegando che dovevo controllare il ritorno a parete del polmone, raccontai della mia malattia. Il radiografo era lo stesso che avevo conosciuto nel precedente pneumotorace. Da dietro lo schermo trasparente che lo separava da me, distesa sul lettino della tac, mi fece il segno dell’ok con la mano. Scoppiai a piangere di gratitudine per un uomo che aveva intercettato la mia angoscia e l’aveva risolta con quella dolcezza. Scoppiai a piangere di stanchezza. Scoppiai a piangere perché ero una sopravvissuta: non era accaduto un miracolo, semplicemente il Pronto Soccorso aveva operato un codice rosso in tempo.