Serie nera e verde di Drago, un libro difficile fino ai margini del silenzio

La lettura esige un distacco, che è qualcosa di più di un coinvolgimento, è intuizione, enigma suggerito dalla follia stessa del linguaggio e dalla disinvoltura della parola “poetica”

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segnali di avaria ora balbettano
convertiti in parte maledetta
una prima fila di lupi
attraversata, una seconda
fra erbe molto alte
e molto secche, alla terza
tremi mentre uno dei lupi
ti gira intorno e ti guarda,
o sei tu, e lui solo un vortice
di foglie e polvere che non si calma

Questo estratto, dalla sezione Under Attack, titolo alquanto esplicativo di una condizione, deve molto, ha un debito con la poesia di Ilse Aichinger (1921- 2016), una delle grandi scrittrici austriache, i cui testi sono ormai considerati classici della letteratura in lingua tedesca. È la stessa autrice a scriverlo nella nota ai testi di questa raccolta inquieta e di notevole valore sia poetico filosofico sia linguistico letterario. Si tratta di Giusi Drago, Serie nera e verde, Seri editore, pag. 107. Prefazione di Giorgio Mascitelli. Lei è una traduttrice e germanista, oltre a trasporre Ilse Aichinger, ha tradotto Carl Gusta Jung, Gustav Meyrink, Rainer Maria Rilke, Robert Walser e Alfred Döblin. Ma perché dico questo che apparentemente non dice nulla sul lavoro di questa pregevole poetessa, sebbene questo libro ne dissemini tracce ovunque e ne indichi gli orizzonti: una riflessione non tanta eccentrica, nemmeno irregolare – il libro ha una struttura profonda, o per rimanere in ambito centroeuropeo, un Abgrund sostanziale, un profilo abissale nella sua apparente grazia metaforica e sociale, ciò nonostante assoluta quanto disinvolta – sulla condizione umana, sulla tarma collettiva, sul cedimento generale, sui cumuli di rovine ormai insopportabili quanto reali, ma soprattutto un pensare il linguaggio, – e qui entra la sua frequentazione con autori complessi sia sul piano filosofico sia della lingua da restituire – una rifrazione sul linguaggio, sulla forma di ogni figura sfigurata e di ogni forza, dynamis, arresa, convulsa, astratta. Una sola domanda, infine, sembra tenere unito questo esprimere, o quest’imponenza poetica. Di tutto questo lacerarsi, c’è possibilità di ricomporre? Non ci si lasci ingannare, il suo è un domandare filosofico. Si chiede di poter tornare a vedere, ma con quali occhi è possibile farlo?

La nota introduttiva al libro della stessa poetessa indica un ormeggio nichilista e un’adiacenza utopistica, ma a leggere i testi s’intravede che di là delle molte coppie oppositive non c’è scarto dialettico ma contiguità, non c’è sintesi (come potrebbe la poesia, essere sintesi?), non c’è una lingua, ma tante. Non siamo, forse, tutte le lingue di questo mondo e una sola lingua, la lingua del libro, dell’anima dell’uomo, di tutti gli uomini, mortali e immortali? Che strana lingua quella “che anche i corpi chiedono e ottengono in quell’attimo di perfezione la loro parte”. E con ragione: perché tutto ciò che nasce è degno di finire in perdizione! Di finire in un libro.

Il libro di Giusi Drago, bensì strutturato in due macro aree, Serie nera e Serie verde, è altresì diviso in luoghi, in spazi dove si moltiplicano le separazioni e si sottraggono, o si estinguono i protocolli di comprensione e di senso. E tutto ciò in un tempo che si scardina in schianti e crolli. In sapienza, allora. La formazione filosofica e letteraria dell’autrice di questi testi respira clandestinità e appartenenza. Vediamo, allora, nel dettaglio dei titoli le suddivisioni e i frazionamenti dell’opera. Forse è lì, nella minuzia delle intitolazioni, che il libro si dissemina di tracce e di convulsioni colte, mai fine a loro stesse ma a dare voce, parola a quella presenza vicina, che proprio per la sua vicinanza, sembra si sia affievolita se non addirittura dimenticata.

Serie Nera: “Non si sono detti niente”. “Che strana lingua”. “Under Attack”. “Milano per Minotauri (cronofobia, fotomania, domolatria, domolatria 2, domolatria 3). In pasto alla sfigurazione, (S & G, Spinoziana I-II). (Goethiana, Fiumi tedeschi e non, Addictet, Pink Floyd addictet, On the road). Serie Verde: Il sistema-fiume. Il sistema-prato, epicentro di rivoluzioni, senza lo stigma dell’identità. Serie nera e verde/Animale e vegetale. Il cenno a Spinoza, come anche a Goethe così come ad altre autori, poeti, letterati, filosofi, fisici e psicanalisti come nella parte finale le suggestioni del dialogo tra Pauli e Jung sono, qui, non delle citazioni “aperte”, ma delle relazioni di accostamento, di contatto, quasi un’assonanza del sentire, del provare ad ascoltare. Dell’intuire, del condividere come del patire. Un far ritornare a essere ciò che dell’essere è stato disperso. Cioè, ciò che dell’essere è pensiero dell’essere e dell’ente. Heidegger scrive che ciò che conta è la domanda dell’essere: l’esistenza è solo un modo dell’essere, ed è tale solo sul fondamento dell’essere e della sua comprensione. Al tempo stesso, emerge il linguaggio, quell’ente dove “lo sguardo, dove il mondo mai la luce del sole insegna che per vedere bisogna salire più in alto dei percentili più in alto ai piedi della neve alla corte dei monti lontano dal paese dei senza occhi nessuna luce tetti di pietra e tenebra cancellati dal libro dei vedenti il vantaggio degli occhi cancellato”. Un linguaggio – qui non ho riportato la giusta disposizione delle parole dell’autrice, perché se non è impossibile, sarebbe complicato – che è di là dal logos e nella ragione di un’origine, dove si chiede agli occhi ancora di poter veder in quel “vasto sistema di grotte e ombre” che sembra sovrastarci. Il richiamo a Platone è evidente, com’è chiara una volontà di precederlo, o un “mettersi al riparo/da negazioni definitive”. Pensare, allora, scrivere poesia è qualcosa di singolare e di separato. Per pochi? “Non è ogni cervello qualcosa/di solitario e di unico?” Non è forse una forma di espressione, di sapienza, prima di ogni altra espressione, prima della parola stessa? L’arte, la più seria e la più convulsa, è ascetismo, distacco dalla vita, scrive Giorgio Colli. Una forma inaudita e impossibile, quindi? Tuttavia, si legge di una forza metaforica (l’animale elefante) che fa del linguaggio un gioco divaricante e di entratura in quella foresta di segni sempre più oscuri e di tracce sempre velate e sfuggenti. L’elefante, l’animale possente, il gesto naturale, “la tua coscienza si abbevera con la proboscide al fiume”. Ci sarebbe molto da scrivere su questo libro di una forza straordinaria, e dalle suggestioni infinite. L’ultima parte, quella più umida, fatta di acque che scorrono, fiumi e affluenti, di foreste e di argini che non riparano e di animali determinati, ha un ultimo cenno di cura o anche di premonizione, quasi una divinazione: “spesso per ignoranza del tema dominante/anche i libri si disarticolano nella foresta/e di tutte le tracce seguono la più irrilevante”. Un libro, questo di Giusi Drago, difficile fino ai margini del silenzio, tuttavia esige un distacco, che è qualcosa di più di un coinvolgimento, è intuizione, enigma suggerito dalla follia stessa del linguaggio e dalla disinvoltura della parola “poetica”. Un linguaggio limpido sarebbe una contraffazione. L’uomo, la poesia si libera nel ripiego necessario e nello sforzo. Ne viene fuori l’opera. O tutto ciò che vale la pena di dire e sostenere.

Giusi Drago, Serie nera e verde, Seri editore, pag. 107

Giusi Drago è nata a Trento e vive a Milano. Ha pubblicato Partiture della memoria in 7 poeti del premio Montale (Scheiwiller, 1995), La pazienza della mano (Nicolodi, 2005), Tempo negoziato (La Camera verde, 2014, e Correggere le diottrie, (Oèdipus, 2019) con cui ha vinto il premio Bologna in Lettere 2020. Traduttrice dal tedesco, ha ricevuto il Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria (Nachwuchspreis) nel 2011 con È morto Tito di Marica Bodrožić (Zandonai 2010). Ha tradotto, fra gli altri, Carl Gustav Jung, Rainer Maria Rilke, Robert Walser, Ilse Aichinger e Alfred Döblin.

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