L’arte nei luoghi della fede, un teatro globale

Un'area dove l'impegno artistico è molto avvertito sia sul piano delle committenze, maggiormente sollecite ad accogliere i linguaggi della contemporaneità, quanto sulla disponibilità ad aggiornare, da parte dell’artista e del progettista, il dialogo con lo spazio liturgico e, soprattutto, il confronto con il contesto di una società che vive una condizione di "surmodernité", segnata dalle crescenti distanze tra il mondo dei bisogni primari e quello oramai preda dell’accelerazione dei consumi

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Il tema certamente non è nuovo. Possiamo affermare, senza rischiare di sollecitare ulteriori argomenti di un dibattito secolare, che la quaestio sul legame che tiene insieme la capacità creativa dell’arte e la sfera della fede, dello spirito, continua ad essere attuale e conserva le posizioni antagoniste che l’hanno da sempre caratterizzata. Il nodo centrale è l’approccio allo spazio del sacro, vale a dire l’habitat cultuale e il rapporto con il contesto sociale nel quale esso si cala. A tal proposito Carlo Chenis, nell’ambito del dibatto avviato dal convegno internazionale “L’arte per il culto nel contesto postconcilare”, tenutosi a San Gabriele (in provincia di Teramo) tra il 25 e il 27 settembre 1995, dedicato allo ‘spazio’, sostiene che “l’habitat cultuale, nella sua complessità, è un «teatro globale» dove i fruitori sono gli attori-fedeli, poiché non esistono spettatori in quanto tutti sono partecipi attivamente della celebrazione dei divini misteri, anche se con diversi ministeri” concludendo che è “necessario che gli operatori [artisti, architetti] si formino alla cultura dell’accoglienza e crescano nel senso di appartenenza per cui deve ricomparire il «cantiere-bottega-laboratorio» dove tutti possono interagire sia a livello tecnico-artistico sia a livello esistenziale”.

Chiesa di San Martino, Asti, opera di Sergio Nannicola ‘No Wars Foto courtesy Giorgio Gertosio ‘ 2022

Aspetti oggi profondamente sentiti nelle esperienze creative dell’arte contemporanea: non solo sul piano delle committenze, maggiormente sollecite ad accogliere i linguaggi della contemporaneità, quanto sulla disponibilità ad aggiornare, da parte dell’artista e del progettista, il dialogo con lo spazio liturgico e, soprattutto, il confronto con il contesto di una società che vive una condizione di surmodernité, segnata dalle crescenti distanze tra il mondo dei bisogni primari e quello oramai preda dell’accelerazione dei consumi. Nel corso di una recente intervista, alla mia domanda sul valore che assume lo spazio del sacro nella costruzione di una società non più fondata su valori etici, Paolo Portoghesi rispondeva: “il ruolo del sacro, nella nostra società, è diverso da quello delle società primitive. È una società, la nostra, che ha cercato di allontanare il sacro: siamo all’interno di un processo di secolarizzazione massiccio, quindi, si tratta di far diventare quello che un tempo era un valore di maggioranza, un valore critico di forte impronta alla trasformazione. […] Qualcuno cerca di trovarlo nelle manifestazioni caratteristiche del nostro mondo, quindi nel quotidiano, nell’acquisto… Io non credo. Il sacro, invece, è un’esigenza profonda dell’Uomo, che ognuno ha dentro di noi, e che tutti noi possiamo riscoprire. Per riscoprirlo, però, occorre, appunto, che ci sia questa azione di risveglio”. L’impegno è, quindi, di manifestare la capacità di tessere la trama di un nuovo ordito che dovrà interessare sia il corpo architettonico, il linguaggio che esso coniuga con lo spazio, con il contesto nel quale si cala sia della pittura, della scultura che oggi registrano la presenza di un’anima che nella fantasia disvela il nostro destino.

Foto courtesy Poggio Guido per Marco Pellizzola

È quanto si scorge nel progetto e poi nella realizzazione della mostra “Architettura del simbolo. Lo spazio, la materia, l’immagine”, allestita nella chiesa di San Martino ad Asti nell’autunno dello scorso anno. L’idea era quella di dar vita ad un’esperienza di “cantiere-bottega-laboratorio”, avviata con la residenza d’artista, organizzata dall’Associazione MAC Tavola di Migliandolo, con lo sguardo proteso a dar vita ad una rassegna annuale, che concentri l’attenzione sul rapporto tra i linguaggi delle arti plastiche contemporanee e l’architettura, nel caso specifico, tardo barocca della chiesa di San Martino. Gli artisti invitati e ospitati in occasione della residenza d’artista, tenutasi nella primavera-estate del 2021, le cui opere hanno dato vita alla mostra, sono: Pippo Altomare, Salvatore Dominelli, Sergio Nannicola e Marco Pellizzola. Si tratta di artisti italiani della generazione apparsa sulla scena espositiva nazionale negli anni Ottanta: il lavoro di Nannicola e di Pellizzola è maggiormente attento al rapporto tra lo spazio (per il secondo soprattutto il luogo nell’accezione di sociale) e la dimensione plastica dell’intervento/ installazione. Per Altomare e Dominelli l’attenzione è stata rivolta, con accenti diversi e in chiave pittorica, ai tratti distintivi del ricco patrimonio pittorico e decorativo della chiesa, eccellenza, ricordavo poc’anzi, del tardo barocco in Piemonte.

I ‘luoghi’ scelti ove collocare le installazioni e i dipinti – entrambi interventi site specific – caratterizzano lo spazio architettonico tardo barocco: l’altare centrale, il coro e la sacrestia. Essi rispondono, più che per la loro dimensione newtoniana, a distinte e precise funzioni; il coro, ove Altomare ha collocato nei dodici stalli le sue carte (la voce che risponde all’incipit della preghiera, che accompagna la voce/canto dell’officiante); la sacrestia, luogo della vestizione, ma anche ove l’officiante si prepara al rito con i quattro dipinti di Dominelli collocati sulle porte degli armadi che si fronteggiano e Marco Pellizzola con un’installazione a mo’ di edicola con all’interno una croce. Infine l’altare maggiore punto focale dell’intera prospettiva della navata, delle linee architettoniche e dello sguardo dei fedeli: ai piedi della croce No guerre / No Wars, l’opera di Sergio Nannicola, un uovo in materiali sintetico ricoperto di fogli d’oro zecchino che ruota su se stesso, ripetendo l’auspicio “No guerre / No Wars”.

Chiesa di San Martino, Asti, altare maggiore con l’opera di Sergio Nannicola

È stata un’esperienza non nuova e che ha trovato e trova altri numerosissimi esempi sia con interventi stabili con l’installazione di opere plastiche ma anche con sperimentazioni di Light Art sia mettendo in essere progetti espositivi temporanei. Esperienze sulle quali da tempo ho posto attenzione e che, caso per caso, mi riportano ad una riflessione sulla dimensione spirituale dell’arte oggi e che ha interessato il rapporto tra architettura e simbolo. Lo spirito prende le sembianze di ‘luogo’, perché, sosteneva Kandinsky “la forma in senso stretto non è in ogni caso nulla di più della delimitazione di una superficie dall’altra. È questa la sua definizione sul piano dell’esteriorità”. Concludendo: “Poiché però tutto ciò che è esteriore racchiude in sé, inevitabilmente, anche un’interiorità (che viene in luce con maggiore o minor forza), così anche ogni forma ha un contenuto interiore”.

Per chiarire quanto detto è giusto segnalare, rapidamente, alcuni esempi di interventi di operatività ambientale dei quali mi sono interessato sia sul piano storico critico sia su quello progettuale e organizzativo. Partirei da due esperienze che hanno posto l’attenzione sul rapporto tra l’incorporea materia qual è la luce artificiale e lo spazio, non nella dimensione fisica, bensì nel suo valore di ‘luogo’ della fede, come è stato per Dan Flavin e per Giulio De Mitri. L’intervento progettato dall’artista statunitense per l’interno della chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano, realizzato dopo la sua morte, avvenuta nel novembre del 1996, evidenzia una scelta che è di profonda spiritualità, se la si pone in rapporto alla drammatica pagina biografica dell’artista che, per associazione, richiama la Salle des départ che proprio a metà del decennio novanta, Ettore Spalletti realizza per l’ospedale Raymond Poincaré a Garches. Per De Mitri, Uno guardo accessibile, è stato un intervento effimero di Light Art realizzato nel 2019, sulla facciata e sullo spazio antistante la Concattedrale Gran Madre di Dio di Taranto, progettata da Giò Ponti e realizzata tra il 1964 e il 1970. L’artista ha affidato all’immaginario dello spettatore una visione della facciata (nota come la vela) e dello spazio che l’accoglie, inondati da una luce azzurra che ha rimodellato il corpo architettonico nel contesto urbano, in un continuo gioco di rimandi metaforici.

In questi ultimi decenni numerosissimi sono stati i progetti e le realizzazioni di proposte architettoniche che hanno interessato, nella fase progettuale e, in particolare nei rapporti con le arti visive e plastiche, aspetti antropologico-pastorali, così come indicati da Chenis. Prospettiva operativa che trova una sua esemplificazione nella chiesa di San Giovanni Battista progettata da Franco Purini e Laura Thermes – fautori della corrente nota come “architettura disegnata” – all’interno del quartiere Stadio o 167 di Lecce e nel progetto vincitore del concorso per la nuova Chiesa della Diocesi di Fiano Romano, del 2019, progettata dall’architetto Alberto Barone (capogruppo dei progettisti) con la partecipazione dell’artista Angelo Casciello. Costruita tra il 2000 e il 2006, la chiesa leccese presenta un’unica aula liturgica in grado di “radunare – scrive De Donnantonio – l’assemblea intorno all’altare, enfatizzando con l’azione stessa del raccogliersi intorno ad esso, il valore liturgico della sua centralità. La chiesa realizzata diventa così l’edificio che più di ogni altro parla al cuore dell’uomo perché riesce a trasmettere a chi vi accede una liturgia capace di fare incontrare Cristo”. Alla chiesa si accede attraverso il portale in terracotta di Mimmo Paladino: all’interno la statua di San Giovanni Battista, opera di Paladino come anche i mosaici, le vetrate, mentre l’altare, l’ambone e la cattedra in pietra di Apricena sono dello scultore Armando Marrocco.
Il progetto della chiesa di Fiano Romano prevede un’aula liturgica, spiega l’architetto Barone diviene centro dinamico dell’architettura; essa evoca “la mandorla, figura risultante dalla intersezione di due cerchi, comunicazione simbolica fra i mondi del materiale e dello spirituale, dell’umano e del divino. […] La chiesa come edificio appartiene alle nostre certezze, al noto, al conosciuto[…]”. Le opere di decorazione, gli inserti di mosaici e l’arredo liturgico sono state progettate dallo scultore Angelo Casciello e riprendono il segno arcaico e organico, proprio del suo linguaggio. Segni, forme ma anche materiali che richiamano i suoi interventi, in ambito cultuale, realizzati negli anni Novanta. In tal senso si vedano la nuova Cappella Santa Maria di Realvalle, dell’Istituto Suore Francescane Alcantarine inaugurata nell’ottobre del 1990 e l’abside della Chiesa di San Vincenzo Ferreri, di Scafati che Casciello portò a termine nel 1993.

Sagrestia della Chiesa di San Martino ad Asti, opere di Salvatore Dominelli

Decisamente nuovo, per il suo anomalo evidenziare la dimensione del simbolico, l’intervento ‘scultoreo’, progettato e realizzato tra il 2008 e il 2009 da Ugo la Pietra per il sagrato della chiesa di San Martino Vescovo a Capitignano, il casale settecentesco del comune di Giffoni Sei Casali. La Pietra trasferisce “il valore tri – dimensionale – rilevavo tempo addietro –, proprio di una concezione scultorea ereditata dal Novecento, nel segno corpo, nelle figure che fa affiorare dal piano, ove il segno (la piastra) è parte in materia, dunque come anima, dell’intero intervento plastico. Si fa, cioè, parte integrante di una ‘modellazione strutturata’, come la ritiene l’artista che spinge a rivedere l’idea stessa di scultura, nel quadro di una «riappropriazione creativa urbana alternativa» che Enrico Crispolti gli riconosceva già a metà degli anni Settanta. […] Il sagrato della chiesa diviene, di fatto, un unicum con l’habitat che lo accoglie, in pratica si fa interprete di una linea di continuità tra segno, disegno di un’immagine-luogo (ciò che si dà alla nostra percezione) e la materia, sostanza di quel corpo-luogo che accoglie la nostra presenza”.

Un’impostazione progettuale che ho ritrovato entrando nella cattedrale di Saint-Bavon a Gand: dalla crociera gotica che copre il vano d’ingresso, vi è sospesa una scultura in acciaio inossidabile, alta poco più di cinque metri. Si tratta di Opus, opera dell’artista francese Wim Delvoye, quale omaggio all’architettura fiamminga. Simile è l’installazione dal titolo Crown che Isa Barbier nel 2001, ha realizzato nella chiesa Sacro Cuore di Gesù a Aix-en Provence, composta da piume, tutte uguali, tutte diverse, sospese a dei fili e che, una vicina all’altra, danno vita ad una sorta di corona che pende al centro del transetto.
Tra le esperienze espositive che ho progettato, curato o alle quali ho collaborato, con un impianto progettuale molto simile a quello che è stato realizzato nella nostra chiesa di Asti, ricordo in particolare le “Stanze dell’anima. L’amore della madre, il respiro di una donna”, allestita nell’estate del 2011 nella chiesa dell’Annunciazione a Marcianise, nel casertano, e la mostra di Franco Marrocco “Cammino, sui passi di San Benedetto”, itinerante tra l’Abbazia di Casamari, di Montecassino, di Leonessa, di Norcia, di Orvinio, di Rieti, di Subiaco e la Certosa di Trisulti, ancora in corso.

Nel primo caso la formula era la stessa proposta ad Asti, vale a dire coniugare il rapporto tra lo spazio sacro, il suo valore di luogo del simbolico e le espressioni d’arte contemporanea. A Marcianise il percorso espositivo era strutturato su cinque riflessioni intorno all’identità “madre-donna”; un senso dello spirituale che ci riporta alla nostra origine, quindi alla fonte della nostra immaginazione, ove il segno svela il sentimento della fede, viatico di ciò che si manifesta allo ‘sguardo’ dell’anima. Nelle ‘avvertenze’, che hanno accompagnato, luogo dopo luogo, il viaggio della pittura, Franco Marrocco sottolinea il suo tendere ad una più sentita correlazione, “tra contemporaneo e antico”, quest’ultimo da leggere come ‘passato’. “Franco – scrivevo nel mio intervento al catalogo – ha lavorato tenendo insieme il registro complessivo di questo suo cammino nel tempo; dalla visione intimista di un gesto che accarezza la tela a quella spaziale che coinvolge i luoghi”.

È in questa prospettiva che hanno operato i quattro artisti nel “cantiere-bottega-laboratorio” allestito nella chiesa del centro storico di Asti, ritrovando, con spirito collegiale il senso da dare al binomio “l’arte e la vita”. Il collante che tiene insieme le opere, o meglio i singoli linguaggi degli artisti è il rapporto con il simbolo, rappresentato dallo spazio architettonico e dagli elementi che in esso sono accolti, cioè i decori, gli affreschi, i dipinti, le sculture, gli oggetti sacri, gli stalli: linguaggi che partecipano a quello che Chenis definisce “teatro globale”.

 

Massimo Bignardi

Classe 1953, ha studiato, con Enrico Crispolti, Storia dell’arte contemporanea. Già professore di ‘Storia dell’Arte contemporanea’, presso Università di Siena ove, dal 2008 al 2016, ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici. È stato commissario della XI e XIV ) Quadriennale d’Arte Nazionale. È, dal 2002, direttore del Museo-FRaC Baronissi. Di recente è stato nominato, per il trimestre 2023-2025, curatore del Premio Internazionale Bugatti-Segantini.

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