La purezza dell’inanimato nel magistero di Bene

Un attento percorso critico nelle opere del grande artista che amò terremotare le residue certezze metafisiche del sempre più stanco “Occidente”, sabotando le regole aristoteliche. Ma, paradossalmente, la sua anti-azione iconoclasta finisce per farlo essere il più vicino alla tradizione italica del “grande attore”

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Il genio di Carmelo Bene e la profonda traccia lasciata alla Biennale di Venezia a fine anni 80

Bene l’Utopia, forse. Nel 1988, la Biennale nomina come direttore artistico della sezione teatro Carmelo Bene. L’incarico non viene salutato da tutti con lo stesso entusiasmo, tutt’altro. Troppo discusso il personaggio al di là dei suoi meriti artistici. Di quella esperienza, oltre quintali di carte bollate e denunce e contro-denunce, non restano che due libri: Il teatro senza spettacolo e La ricerca impossibile, Biennale teatro ’89, entrambi pubblicati da Marsilio nel 1990. Di questo traumatico back-stage veneziano, Edoardo Fadini, amico e sodale di Bene, dice: « (…) Carmelo Bene si è mosso tra Venezia e Mosca, nei due anni ’89 e ’90, a un livello di pensiero che abbandonava radicalmente consequenzialità, linearità e ogni tradizionale percorso discorsivo collegato a realtà specifiche concrete.» In realtà, è proprio a cavallo di questi anni che Carmelo matura la svolta che lo porterà ad abbandonare “La voce di Narciso” per intraprendere l’impossibile corsa verso la “Macchina attoriale”. Ultima fase del suo percorso, dove l’irrappresentabile, il vuoto, il silenzio, almeno teoricamente, avranno il sopravvento. Qui CB raggiunge le clausure degli attorisanti, come la Duse o i grandi teatranti senza spettacolo, come Artaud e l’ultimo Grotowski. Lo attrae il vuoto e l’assenza, magari, prodotti da fuochi che bruciando purificano. Ma meglio sarebbe dire che lo attraggono le epifanie miracolose che seguono il puro vuoto e il puro silenzio. Quell’ “eterno ritorno” che non significa affatto il ritorno del già dato, la banale routine, bensì la sospensione del tempo e dello spazio storico che permettono l’apparizione di “ciò che è necessario sapere”. Qualcosa del genere lo aveva già provato Rilke tra le rovine del teatro d’Orange, in quel bellissimo e anomalo romanzo che è “I Quaderni di Malte”. Anche l’arte visiva, qualche anno prima, aveva provata l’ebbrezza mistica del monocromo. Questa sua attrazione forte per l’inorganico, accentua il suo proverbiale e continuo disinteresse per l’azione in scena. L’afasico Amleto, il suo mentore. Anzi, gli Amleti, i tanti che aveva incontrato nella sua carriere di grande “non-attore”. Da Shakespeare a Laforgue. Col principe danese, CB supera il banale chiacchiericcio sulla disputa tra vero/falso della secolare tradizione scenica occidentale, per virare con forza verso la poesia e il canto. I suoi travisamenti, le sue brusche interruzioni, mostrano maggiore maturità rispetto agli iniziali accumuli, beffardi e parodici sberleffi avanguardistici. Non gli basta più la dissacrazione, la destrutturazione. Attraverso il “malessere” di Amleto, CB capisce che può sferrare il colpo decisivo per far crollare tutta la tradizione aristotelica. Uno scacco al re ben più coraggioso e arduo: la fine del “tragico”. Il suo continuo e svogliato stare sulla scena, il suo disincantato oblomovismo, ora appaiono in una luce più consapevole. La sua anti-azione vira verso la “suite”. Il canto solitario, la corsa solitaria. Dioniso che ingloba Apollo ad un passo dal dissoluto Eliogabalo, l’imperatore romano che cerca disperatamente la sua definitiva auto-distruzione. Ma, a questo punto, è opportuno fare un passo indietro. Alcuni critici sono concordi nell’indicare la sua strategia operativa dividendola in quattro momenti distinti. La prima è fatta risalire agli anni sessanta. Sono gli anni del suo inizio. Anni di contestazione che culmineranno con il convegno d’Ivrea del 1967 dove CB si troverà insieme ad altri teatranti uniti da una violenta carica eversiva nei confronti della scena ufficiale. Carica iconoclasta declinata da tutti, in verità, in modi molto diversi. Sono tutti artisti talentuosi, uniti dall’insofferenza verso il “sistema” ma molto diversi l’uno dall’altro. CB, il più anomalo, mostra d’essere insofferente ad ogni logica di gruppo. La sua posizione risulterà subito elitaria, snobistica. Il personaggio emerge dallo sfondo facendo leva su una antipatia così ben costruita che lo pone subito in una posizione molto originale. CB, innanzitutto, non è interessato alla politica; è lontanissimo dal forte contagio ideologico che, invece, impegna gli altri. Lui contesta non perché vorrebbe cambiare il mondo, bensì, “uscire dal mondo”. Non crede nella memoria, auspica l’oblio, coniuga un anti-storicismo frutto delle filosofie post-nietzscheane. Ama terremotare le residue certezze metafisiche del sempre più stanco “Occidente”, sabotando le regole aristoteliche, attraverso un accumulo caotico, para-tattico e segmentante. L’incompiuto, il frammento, il rumoroso straniamento, costituiscono i suoi punti di forza. Paradossalmente, la sua anti-azione iconoclasta finisce per farlo essere il più vicino alla tradizione italica del “grande attore”. Del “grande attore”, infatti, CB assume non solo le pose bensì le strategie. Dopo questa fase, passerà, dal 1968 al 1973, ad occuparsi quasi esclusivamente di cinema. Dal 1973 al 1980, CB torna alla grande stagione shakespeariana e ai suoi stupefacenti “concerti”. In questa fase la strumentazione tecnologica giunge a parossismi esasperati. La ricerca sulla phoné diventa la sua ossessione. La purezza del suono prima delle “parole”, prima d’ogni grammatica, di ogni sintassi, per spezzare le prigioni del “senso”. Quarta stazione ed ultima. Passa anche l’innamoramento per la phoné, essendo il puro suono ancora troppo legato alla lezione nietzscheana. Non più o non solo quella nostalgia dell’”Essere” precipitato nelle grinfie della tirannica signoria dell’IO. Ora, tutto questo sembra confinato in un lontanissimo passato. Le operazioni al cuore, le grandi bevute, le forti depressioni, le sue blasfeme “apparizioni alla Madonna”, determineranno in lui quell’Utopia del “corpo senz’organi”, quella purezza dell’inanimato al quale il suo “destino” lo aveva, forse, programmato sin dalla nascita: quella “macchina attoriale”, costretta a fermarsi ormai per sempre. Non sapremo mai più quali sarebbero stati gli esiti ulteriori. Intanto, oggi, restano solo polemiche. Miserevoli dispute, eredità contrastate. Che tristezza! Detto questo, a me, piace pensare che il suo corpo ormai bianco e innocente, dopo una vita così travagliata, fosse ritrovato su una spiaggia assolata del suo amato Salento, spinto dal mare fin là, come a volersi ricongiungere finalmente con le sue “origini”. Nell’aria tersa un’eco di pizzica e memorie di menadi accecate dalle tarantole; lui, issato a mo’ di nuovo San Giuseppe da Copertino, portato in processione e seguito ancora una volta “dal complesso bandistico della gendarmeria salentina” che suona una musica dolce/amara, e da una folla di devoti, ex-chierici vaganti, ormai incapaci d’ogni opera di Bene.

Pasquale De Cristofaro

Regista e pedagogo teatrale, ha diretto le rassegne, Teatro della Notte e Corponovecento. Ha insegnato in qualità di docente a contratto presso Università e Conservatori, attualmente insegna Storia del Teatro nell’indirizzo di Sperimentazione Teatro del Liceo Artistico di Salerno ed è coordinatore didattico di una scuola di alta formazione teatrale nelle Marche. Ha diretto molti spettacoli nei maggiori teatri italiani e pubblicato vari libri sul teatro del novecento.

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