La sorte di Teresa aveva bussato alla sua vita il giorno del pellegrinaggio alla Madonna del Monte

Le storie dei contadini di un paese della Lucania, emblema del Sud, colti nelle trasformazioni tra XVIII e XIX secolo sono al centro del libro "Tre compari musicanti"

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Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo questo brano dal libro “Tre compari musicanti” (Grenelle editore) dell’antropologo Paolo Apolito, tra i massimi studiosi di fenomeni religiosi e rituali, delle feste e dei ritmi musicali della civiltà contadina. I personaggi del romanzo, accolto dalla critica e dai lettori con un diffuso consenso, sono i contadini di un mitico paese della Lucania, emblema di tutto il Sud, colti nelle profonde trasformazioni tra XVIII e XIX secolo.


Lei fu una delle quattro ragazze che portarono in testa le cente di candele a forma di barca o di obelisco al santuario. Tutte e quattro vergini, com’era regola, nubili. Le vecchie antiche dicevano che le ragazze che portavano le cente in testa entro un anno si sposavano o morivano, ma le eccezioni erano quasi la regola, come avvenne anche quell’anno.

Si sorpresero tutti quando lungo il sentiero del monte passò uno stallone nero a fianco della fila di pellegrini che andavano al santuario; era inconsueto, generalmente i Galantuomini si tenevano a parte dai contadini. Teresa era luminosa, i lunghi capelli ricci erano raccolti alla nuca con un nastro di pizzo bianco, sorrideva di paura, di pienezza e felicità.

Dietro alle cente, i suoni di Nunzio e di Angiolo ra Ciaramella. Il vecchio zampognaro aveva deciso che quello sarebbe stato per lui l’ultimo pellegrinaggio alla Madonna del Monte, le gambe ormai lo tradivano, la vista gli s’abbassava drasticamente. E dietro i suoni, in fila, cantando e pregando tutti gli altri pellegrini. Sostarono alle stazioni della Via crucis guardando il santuario sulla vetta con desiderio e commozione, s’immersero nei boschi che circondavano l’ultima parte del cammino, accrebbero l’intensità delle voci, salirono senza avvertire fatica. L’ultimo canto in vista della cima:

Ai piedi della Madonna
c’è nata una bella rosa
una rosa inargentata
viva Maria che ce l’ha data
ce l’ha data il cuor di Gesù
Madonna bella aiutaci tu.

Continuarono a lungo perché dopo i piedi tutto il corpo della Madonna era cantato come teatro di nascita di “rose inargentate”, le gambe, i ginocchi, le cosce, la pancia, le braccia, il petto, la mano, la faccia, la testa incoronata, canto d’amore estremo d’amante ad amata che percorreva l’intero corpo addobbato di Maria mettendolo in pegno per chiedere la protezione del cielo su questa terra.
Arrivati alla croce che stava ai piedi del sentiero finale, posarono uno alla volta per voto una pietra sopra un enorme cumulo sedimentato in decenni di voti. Poi aspettarono il turno per il rito di ingresso. Perché al santuario arrivavano pellegrini da tutte le valli, del Sinni, dell’Agri, del Basento, e persino venivano dal massiccio del Pollino e certi calabresi che stavano in fondo al Regno.

Ogni Paese sulla Montagna del santuario arrivava formato in compagnie, che spiccavano in macchie di colore diverso. Tutti devoti della stessa Madonna, tutti differenti. Per come vestivano, per come parlavano, per come suonavano e cantavano. I vecchi antichi ricordavano che in passato c’erano stati conflitti al santuario tra i vari paesi per stabilire prevalenze e preminenze, scontri anche sanguinosi, poi era prevalsa la saggezza rituale, la Madonna ci aveva messo la mano sua, e avevano concordato e stabilito turni e ordini e adesso ciascuna paranza o compagnia conosceva il suo spazio e il suo tempo, e riconosceva quelli degli altri.

Quando fu il momento della compagnia di Nunzio, fecero tre volte tre giri rituali intorno all’edificio del santuario, poi si prepararono all’ingresso, affollando la porta. Teresa, la cugina Annalucia Lopinto, Brigida Di Lorenzo e Paolina Borneo andarono avanti per depositare le cente ai fianchi dell’altare, il resto della compagnia invece si divise in due file che pregavano e cantavano. Poi venne il turno della funzione religiosa del canonico, di cui ansiosamente si aspettava la conclusione per arrivare al contatto personale, ed eccola la lenta sfilata individuale davanti la statua, panni, fazzoletti, mani che toccavano la statua sull’alto piedistallo, piedi, gambe, ginocchi, qualcuno si allungava al petto, alle braccia. Infine i canti di addio, la promessa di ritorno l’anno successivo:

Statti bene Madonna mia,
l’anno che viene torniamo a venì
e se non ci vediamo di viso
ci vediamo in Paradiso
e se non ci vediamo di qua
ci vediamo all’Eternità.

Usciti dal santuario si fermarono frastornati, come fossero stati espulsi da un luogo familiare, buttati in mezzo alla strada.

Poi cambiò scenario, cominciò la festa, si prepararono i bivacchi, si accesero i fuochi per arrostire gli agnelli, si mangiò e bevve, si suonò, cantò e ballò, si fecero giochi, raccontarono cunti, fu tutto un ridere, sudare, agitarsi, e in mezzo spuntarono appuntamenti segreti nel cuore dei boschi. Il vescovo Anzani già a metà del Settecento aveva denunciato nelle prediche in tutti i paesi che andavano sul Monte “li gran piccati che si fanno” e ribadito “quanto sia inconveniente mischiare obbligazioni alla Madonna santissima e peccati”. E durante la festa certe ragazze scomparvero, dov’è Porzia? ecccola, sta là, guarda, con zia Carmela sta! e Maria dov’è? cerca! e Annalucia? ahi! dov’è andata Annalucia? e Teresa? comare avete visto Teresa? Le madri, le zie ruotavano gli occhi intorno, nella confusione della festa, dandosi l’allarme e scrutando nella folla dei pellegrini che venivano dai paesi vicini e lontani, poi una per volta a turno, per non dare nell’occhio, si inoltravano nella macchia del bosco, tutte le volte tornando indietro e segnalandosi con una smorfia il successo o l’insuccesso della ricerca.

Teresa era tornata subito e la mamma Sabella s’era rassicurata, le era sembrato un falso allarme. In realtà Teresa aveva preso un appuntamento segreto. Invece Annalucia tornò tardi, rossa in faccia, sudata, sconvolta, l’eccitazione e la paura, la mamma che temeva intuì, a casa facciamo i conti, le comari abbassarono le teste, non si doveva fare commedia là sopra, ma gli altri capirono, avevano immaginato, corse sfrenate tra gli alberi per gioco e per non farsi vedere, poi nella macchia, vicini, i giovani non avevano resistito alla pelle che scottava. Era impossibile fermarsi dopo, al momento giusto, lui, ma anche lei, una prova, “Voglio vedere se sei vergine”, un impegno, “Ci sposiamo”, “Un’altra botta e come viene viene, che noi ci amiamo e ci vogliamo bene”.

Era successo, succedeva a tante, la Madonna le avrebbe protette, certe rimanevano incinte. Ma non sempre la colpa cadeva solo sulla ragazza, marchiata a vita. Non sempre si copriva la vergogna con qualche compenso nascosto come quando c’era un Don in mezzo. “Chi è stato?” si urlava nelle case e giù botte, gli uomini di famiglia addosso alla ragazza quando non riusciva più a nascondere la nausea e la pancia e la fatica accresciuta nel lavoro. “È stato quello!” e si andava a casa, si parlava con il padre, con lui stesso, e si diceva che non c’erano alternative alle nozze, e le mani erano già ai coltelli.

Ma Teresa non parlò. Il padre, Nunzio, e i fratelli, Antoniomario e Giuseppe, prima la minacciarono poi la riempirono di botte perché dicesse quel nome. Ma niente, non ci fu verso. E questa fu la rabbia di Nunzio. Può succedere, non dovrebbe, ma può succedere. Ce ne sono state tante di ragazze sverginate e rimaste incinte. Però se succede, la ragazza deve dire chi è stato perché la famiglia possa rivalersi. Ma Teresa rimase muta, s’era illusa, l’avevano illusa che qualcosa sarebbe accaduto nella sua vita.

Lei non sapeva, non immaginava, che era per scommessa con i suoi amici, che il Galantuomo l’aveva sedotta.

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